Michel Houellebecq. Foto tratta da El Mundo

Michel Houellebecq, l'incendio della scrittura

Davide D'Alessandro

Il grande scrittore francese in “Serotonina” osserva la ferita che sanguina, la indica, suona la sveglia. Qualcosa sta andando a fuoco, ma l’uomo ha lo sguardo altrove. Prova eccellente per forza narrativa e capacità estrema di raccontare l’annientamento

Dicono che scriva da Dio. In realtà scrive da Michel Houellebecq, che è come scrivere da Dio. Serotonina, edito da La nave di Teseo, dice forse più di ogni altro libro di questa scrittura grandiosa che cattura, alla maniera del Captorix, la «piccola compressa bianca, ovale, divisibile. Non crea né trasforma: interpreta. Ciò che era definitivo, lo rende passeggero; ciò che era ineluttabile, lo rende contingente». Alla piccola compressa bianca si affida Florent-Claude (che bel nome, anche se lui lo detesta!), il protagonista di queste pagine sulle quali è stato scritto già tutto, ma non che, attraverso la disperazione, sa guardare indietro e spiegare il presente, disegnando scenari che non hanno futuro ma un destino certo, segnato. C’è la rabbia, la frustrazione e per alcuni, addirittura, l’anticipazione della rivolta dei gilets jaunes. Il senso di insoddisfazione pervade la storia, come se fossero state truccate le carte di una partita impossibile. Ci dicono che le carte stanno sempre nelle mani dell’uomo e sta a lui giocarle, ma se sono truccate a che gioco può giocare? Florent-Claude ha quarantasei anni, lavora al ministero dell’agricoltura, è depresso. Il Captorix, per quanto gli riduca notevolmente la voglia di sesso che accompagna incessantemente la sua vita, gli consente di andare avanti, di resistere e di rimpiangere. Di rimpiangere un amore perduto mentre tutto parla di crisi, tutto parla di decadenza, tutto parla di dissoluzione.

Nel libro di Houellebecq c’è la vita e c’è il senso della morte, il suo respiro, come se accompagnasse l’agonia della vita, che è sconfitta, come la perdita di Camille. Florent-Claude aveva dieci anni più di Camille e «la stessa serietà che aveva negli studi, Camille, la manifestava nel suo rapporto con me. Non voglio dire che fosse austera o compassata, anzi era molto allegra, rideva per un nonnulla, e per certi versi era anche rimasta stranamente infantile, a volte aveva delle crisi da Kinder Bueno, cose del genere. Ma eravamo in coppia, era una faccenda seria, era addirittura la faccenda più seria della sua vita, e io restavo sconvolto, fino a trovarmi letteralmente senza fiato, ogni volta che leggevo nello sguardo che posava su di me la gravità, la profondità del suo impegno – una gravità, una profondità di cui a diciannove anni sarei stato del tutto incapace».

Il Captorix «non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo, la sua azione è di tipo diverso: trasformando la vita in una serie di formalità, permette di raggirare. Pertanto aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire – per qualche tempo. La morte, tuttavia, finisce per imporsi, l’armatura molecolare si incrina, il processo di disfacimento riprende il suo corso». In mezzo è come se ci fosse un’illusione, una splendida illusione, fatta di amore, di sesso, di lotta, di scontro, di estensione del dominio della lotta, di sottomissione, di particelle elementari, di politica, di Europa, di globalizzazione, di Internet, di Smith & Wesson, di Bistrot, di Champs Elysées, ma pur sempre illusione.

C’è una ferita che sanguina e questo mondo non riesce neppure a osservarla. Houellebecq non è un profeta. La vede, la indica, suona la sveglia. Qualcosa sta andando a fuoco come nella copertina di questo libro che s’impone per scrittura, forza narrativa e capacità estrema di raccontare l’annientamento. Tocca ancora una volta agli scrittori, a un grande scrittore, illuminare il giorno che viene.