Il populismo che ci assedia, la politica che ci manca

Davide D'Alessandro

Tre libri sollevano temi cruciali, analizzano la deprimente situazione in cui viviamo, tentano di indicare la strada per la costruzione di una nuova comunità. Barbano, Revelli e Pombeni sono uniti da una grande preoccupazione, ma invitano a non arrendersi

Che ne facciamo del sentimento antieuropeista a due mesi dal voto? È tutta colpa del fenomeno migratorio o delle tante e irrisolte disuguaglianze che affliggono alcuni Paesi del nostro caro Continente? Da dove provengono i rigurgiti del nazionalismo? Il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas, sull’ultimo numero di “Micromega”, non ha dubbi: “Al di là del fatto che oggi, di fronte a una modernizzazione capitalistica iperaccelerata, ci troviamo ad affrontare anche il malessere dovuto a profondi cambiamenti sociali, io non ritengo che i sentimenti antieuropeisti fomentati dai populismi di destra e di sinistra siano un fenomeno derivante dal nazionalismo. I sentimenti antieuropei, in maniera totalmente indipendente dal tema delle migrazioni, scaturiscono dalla realistica percezione che l’Unione monetaria non sia più un vantaggio per tutti i paesi membri. Il Sud dell’Europa contro il Nord e viceversa: i ‘perdenti’ si sentono trattati ingiustamente, i ‘vincitori’ respingono tali imputazioni. Come si è fatto evidente, il rigido sistema di regole imposte agli Stati membri dell’Unione monetaria europea va a tutto vantaggio dei paesi economicamente più forti, senza offrire in cambio alcuno spazio né alcuna attribuzione di competenze tale da condurre a un’azione condivisa e dotata di flessibilità. Perciò, a mio parere, la questione su cui davvero emergono differenze di vedute politiche non è quella riguardante l’essere a favore o contro l’Unione europea. L’unico modo in cui l’Unione potrebbe guadagnare capacità di azione politica e recuperare il supporto dei suoi cittadini sarebbe attraverso l’istituzione, a livello europeo, di poteri e risorse per programmi democraticamente legittimati miranti a contrastare l’acuirsi delle divergenze economiche e sociali tra gli Stati membri”.

All’interno del contesto europeo c’è l’Italia e in Italia, paese da considerare ‘perdente’, paese dove, per dirla con una felice espressione di Ilvo Diamanti, tutto è provvisoriamente provvisorio, ci sono tre libri che aiutano a riflettere sulla crisi della politica, sul populismo che ci assedia, sull'incapacità di vivere l’Europa come àncora di salvezza. Se Alessandro Barbano enuncia tante buone ragioni per combattere il populismo, Paolo Pombeni rivendica una funzione alta della politica come arte del possibile, mentre Marco Revelli spiega perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite. Tre libri, tre autori, tre studiosi che sollevano temi cruciali, analizzano la deprimente situazione in cui versa la politica, tentano di indicare la strada per la costruzione di una nuova comunità.

Barbano, ex Direttore del Mattino, in Le dieci bugie, edito da Mondadori, smonta il castello populista dopo avergli assestato duri colpi. Lo fa attraverso l’esame, appunto, delle dieci bugie sulle quali si fonderebbe l’impianto di chi ha conquistato il potere, di chi viaggia a vele spiegate soffiando sulla paura, di chi cavalca la rabbia dei cittadini, l’inquietudine dell’umano. E quali sarebbero le dieci bugie? Eccole: che la crisi è stata causata dall'avidità delle politiche neoliberiste, che il nostro sistema fiscale è progressivo, che se gli anziani non vanno in pensione i giovani non lavoreranno mai, che il reddito di cittadinanza rilancerà il Sud, che il contratto nazionale tutela il lavoro, che il merito promuove l’egoismo e fa una società diseguale, che eliminare il finanziamento ai partiti risana la politica, che i politici devono essere come tutti gli altri, che per combattere la mafia serve l’Antimafia, che il nuovo è sempre meglio del vecchio. Scrive Barbano: “Il populismo che assedia l’Europa alla vigilia delle elezioni continentali e domina l’Italia, la governa a palazzo e la infiamma in piazza, si mostra alternativo alla democrazia liberale. Origina da uno slittamento del pensiero progressista e liberale verso un’espansione illimitata dei diritti e assume la forma di una febbre parassitaria della globalizzazione. Lucra sulle disuguaglianze dei mercati aperti, semina odio sui conflitti del multiculturalismo, sfida la secolarizzazione con le sue patacche identitarie, oppone il nazionalismo alla rigida governance finanziaria di un’Europa divisa tra Nord e Sud, semina l’invidia nella classe media impoverita, inietta nella società intera il virus dell’analfabetismo funzionale e cognitivo. La sua continuità sostanziale con la crisi della democrazia liberale è dissimulata. Questa ipocrisia lo fa più infiltrante e pervasivo, e lo diffonde oltre i suoi confini dichiarati, fino a imporlo come una postura sociale e un senso comune”.

Marco Revelli, Docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale, in La politica senza politica, edito da Einaudi, affronta i nuovi populismi, s’inoltra nell'Europa populista, riprende il tema del …finale di partito, della crisi del partito, s’interroga sulla possibilità di una democrazia senza partiti, tratteggia con precisione mirabile la crisi della classe media e la disuguaglianza globale, approdando ai serbatoi dell’ira, dando conto del rancore, dell’invidia, di tutto ciò che ha scatenato la rottura di una fragile coesione. Scrive Revelli: “Anche se predicato dall'alto – da leader che si vorrebbero carismatici e che comunque esprimono un’estrema personalizzazione della politica – il discorso populista si presenta come la voce del profondo, come il brontolio cupo degli strati bassi della società che rimbomba nel vuoto di una politica spopolata. Il suo corpo sociale è composto, in prevalenza, dai 'traditi' dalla politica che costituiscono per molti versi il perfetto idealtipo della post-democrazia: quel demos che si sente abbandonato (dimenticato) dal kratos (dal potere), che non cerca più rappresentanza (ne ha perso l’illusione) ma solo rappresentazione (messa in scena spettacolarizzata del proprio ripudio di ogni passato), e che non crede più di potersi occupare di ciò che è pubblico ma soltanto di doversi difendere da esso. Sono loro i protagonisti principali della politica senza politica: gli abitanti dell’abisso che la narrativa dell’inevitabilità ha generato e insieme gli adoratori del feticcio che da quella fossa è stato riesumato in forma di identità provvisoria”.

Paolo Pombeni, Professore emerito dell’Università di Bologna, in La buona politica, edito dal Mulino, crede fermamente che la crisi politica richieda una reazione, che sia possibile e sperabile la riscoperta del bene comune, la ricostruzione dell’opinione pubblica, il ripensamento delle forme di rappresentanza e la costruzione di una nuova comunità politica. Non c’è motivo di arrendersi, invoca nelle conclusioni, ma il programma è certamente un vasto programma. Scrive Pombeni: “Se vogliamo avere una buona politica è necessario riuscire a compattarci, per quanto in maniera dialettica, nel volere una politica razionale, senza per questo privarla della passione per l’ideale. Ragione e passione sono i pilastri della buona politica, a patto che sappiamo che non si può scambiare per ragione tutto quel che passa per il cervello e per passione tutte le esaltazioni, per non dire i fanatismi, di chi opera in questo campo: anche se la passione vera rimane essenziale se si vuole, come si sarebbe detto una volta, che la storia vada avanti”.

Tre libri diversi, ma uniti da una grande preoccupazione: si è rotto un patto, si è sfibrato il tessuto che teneva insieme le parti, siamo finiti in una terra di nessuno dove non è semplice valutare il passato, i tanti errori commessi, ed è arduo ipotizzare il domani, ciò che attende le nuove generazioni. Tutto brucia in fretta, l’adesso ha rubato tempo e anima al progetto, si gestisce il quotidiano, l’attimo, senza capacità e volontà d’immaginazione, senza nulla opporre allo spaventoso decadimento culturale, alla perdita di senso della vita, alla difficoltà di ricreare spazi di condivisione, alla mancanza di futuro. Per il filosofo ed ex parlamentare Aldo Masullo, lucidissimo novantaseienne, “il punto di caduta del cambiamento è il corpo sociale cioè oggettivamente la sua dinamica e soggettivamente la sua tensione. La politica è la sartoria in cui si taglia e si cuce, si scuce e si riadatta al corpo sociale l'indispensabile vestito. Ora che ‘tutto’ è cambiato, non si può più riadattare il vestito. Occorre un completo nuovo, tagliato e cucito sul corpo trasformato. Perciò oggi i politici, anche quelli che gridano al cambiamento, affannano e si confondono, sostanzialmente impotenti. Essi non sanno se non, al più, presumere di rivoltare l'abito vecchio. Ma il corpo sociale, così come oggi è cambiato, non si lascia vestire dalla vecchia politica”.

Per cui ci troviamo con una nuova politica che non soddisfa, che risponde, e male, con gli annunci e la propaganda e una vecchia politica non più adeguata. È la terra di nessuno dove ognuno può insediarsi, con un clic e uno slogan, con un mi piace e una faccina, e giocare la sua breve partita, vivere il suo momento di gloria, ma la gloria non vedo, direbbe Leopardi. Non vediamo “il lauro e il ferro ond'eran carchi i nostri padri antichi”. Antichi. Non certo quelli di qualche annetto fa che, sull’oggi, hanno responsabilità colossali.