Urbino

Sotto il cielo di Urbino

Davide D'Alessandro

Un racconto breve del 2006 per onorare i cinquecento anni dell’Università della città natale di Raffaello. Un luogo dell’anima, con le pietre color miele. Non ricorderemo nulla della laurea se non il luogo da cui non ci separeremo più

 

…Dicevo che Urbino era ciò che cercavo. Quando cammino tra i suoi vicoli e ho i versi di un poeta nel cuore, il tempo si ferma o, meglio, riporta indietro le lancette dell’orologio a me che ero prima che fossi. Ci sono già stato in questo luogo, dicevo, ho già attraversato lo stradino che apre verso la piazza, mi sono già perso nelle piccole chiese antiche, ho già spezzato il pane caldo del fornaio dietro l’angolo, ho già rincorso dal muretto la palla di pezza che mi lanciava il compagno dei giochi. Era un’altra vita, era la mia vita.

Penso che nulla di tutto questo abbia bisogno di tornare, perché è, sta qui, vive con me. Erano immagini lontane, nascoste, sepolte sotto il peso angosciante di quest’altra vita, quella di tutti i giorni, del quotidiano, la vita della folle corsa verso il nulla. Erano i luoghi persi di Umberto Piersanti, poeta di questa terra, e mentre lui li perdeva scrivendo, io li ritrovavo leggendolo. Urbino, con le sue mura, con le sue pietre color miele, ha accolto i miei passi stanchi, ha scaldato il mio tempo freddo, cupo, inutile.

La ragazza adesso mi guardava incantata. Avevamo cominciato ad assaggiare le prime cose e la terrazza della Taverna degli artisti, quella sera d’agosto, era la scena dove stavamo vivendo il primo atto del nostro incontro. La mattina, alla terza giornata del corso estivo, avevo incrociato i suoi occhi azzurri. Alla fine della lezione mi ero avvicinato, timido, goffo, leggermente ansioso. C’erano alcuni anni fra noi e l’anello nel medio a ricordarmi che non saremmo stati soli, ma la sentivo già piuttosto accanto mentre il vento ci spingeva e rendeva più dolce la salita di via Saffi. Un breve saluto davanti al portone della biblioteca e la promessa di rivederci la sera, alla fontana di piazza della Repubblica, per decidere di venire qui, a mangiare, a guardarci, a pensare, a tenerci la mano prima che lo scuro della notte giungesse a squarciare i nostri veli.

Urbino, dicevo, mi ha dato una laurea e un’altra me ne darà proprio a giugno del cinquecentenario. Ha risvegliato l’amore per i libri, lo studio, la ricerca, in me che vivevo il tempo della decadenza, dell’ amarezza. E della solitudine. In me che vivevo il tempo di speranze tradite, di disillusioni, di caducità. Il senso del precipitare verso un terreno misterioso e nemico. L’idea che qualcosa stesse franando aveva mutato profondamente la mia identità. Che cos’era la vita, la mia vita, all’inizio del terzo millennio (parola grande, millennio!), sradicato com’ero da tutto e da tutti, solo, eppure ancora in grado di sperare (verbo fremente, sperare!)?

Era una vita senza progetto, senza orizzonte, senza domani, senza durata. Una vita chiusa, asfittica, ripiegata su sé stessa, a termine. Affidata a eventi, a occasioni fortuite, mai a scelte consapevoli. Fredda. Contingente. Materiale. Disincantata. Vulnerabile. Precaria. Sfiduciata. Vuota. Nichilistica. Liquida e individualizzata, direbbe Bauman.

Urbino, un luogo, una terra, uno spazio altro, nuovo e antico insieme, ha dissolto le nebbie e restituito luce al giorno che viene. Ha scosso l’anima, ha lenito le sue ferite e l’ha ricondotta con sé da dove era partita, chissà quando, chissà perché. Ha ritrovato il suo codice, la sua vocazione, la sua chiamata e le ha chiesto di risponderle, di assolvere al compito, di allinearsi al suo disegno, pena la perdizione, il non essere, l’uscita da sé.

I luoghi parlano, cara ragazza. Parlano anche di te. Non saresti quella che sei se non avessi lasciato Matera, i sassi, un amore finito, per essere qui a raccontarti attraverso il mio racconto, a guardarti attraverso il mio sguardo, a emozionarti attraverso le mie emozioni. Sotto il cielo di Urbino comincia una nuova storia, in realtà mai finita. Sei stata tu a propormi la notte sulle scale del Duomo, a contare le stelle, se ci saranno le stelle, a leggere Leopardi anche se ti chiami Francesca e non Silvia, a riprenderci l’infinito che avevamo lasciato a chi e perché? Questo luogo ha visto crescere anche te, crescere nel senso di venire su, diventare donna, esame dopo esame, giorno dopo giorno, pianto dopo pianto, ricordo dopo ricordo e tutto ciò che ti sembrava smarrito, perduto per sempre, è tornato, lo vedi, è tornato a dirti di un altro possibile amore.

Stamane ricordavi il tuo arrivo al piazzale di Mercatale. L’autobus da Pesaro ti aveva introdotta verso l’interno. Avevi letto che non poteva esserci viaggio, processo di individuazione, senza separazione, senza distacco. Pensavi a una partenza verso l’ignoto e non sapevi che stavi tornando tra le mura che ti avevano cullata prima che tu fossi.

Era novembre, gli alberi spogli, qualche fiocco di neve nell’aria e tante speranze nel cuore. Poi, di fronte alla piccola porta di quello che è ancora oggi il tuo nido, un incontro strano. Avevi appena posato la valigia, cercavi le chiavi nella tasca e dietro le spalle ti giunse come un lungo sospiro. Una mamma spingeva la sedia a rotelle di un giovane poco fortunato. Lui le aveva chiesto di fermarsi. Aveva còlto, magari seguendo il tuo incedere lento, la trepidazione di una nuova avventura.

«Salve, mi chiamo Fausto. Arrivi a Urbino per la prima volta?».

«Ciao, Fausto. Io sono Francesca. Sono venuta a giugno per scegliere la stanza ma oggi è davvero la prima volta. Lunedì cominceranno le lezioni. Tu sei di Urbino?».

«No, sono di Orvieto. L’anno scorso, era luglio, con i genitori venimmo qui due giorni in gita. Appena la vidi, decisi che sarebbe stata la mia Università. Forse, sarà il mio luogo per sempre. Ti troverai bene, vedrai…».

«Grazie, sei molto gentile. Diamoci i numeri, così ci sentiamo…».

E il giorno dopo c’eri tu dietro la sedia a spingere Fausto che in realtà spingeva te verso un luogo perso e ritrovato. Via S. Chiara, il Palazzo Ducale, le chiese di S. Francesco e S. Domenico. Camminavi leggera, sospinta dalla gioia, senza sentire la fatica. Fausto divorava il minestrone caldo che la madre aveva tenuto coperto sul piatto, si sporcava il viso e ti sorrideva. Tu invece pensavi al sapore di questo luogo, all’odore di questo luogo, al poco valore che avrebbe avuto la tua futura laurea senza questo luogo. Sociologia, Filosofia, Economia, che importa? Che importa della laurea se non il luogo dove l’hai cercata, sudata, conquistata? Importa il luogo, il muro a cui stringiamo il nostro abbraccio, le pietre su cui poggiamo i nostri piedi e sento le radici sotto quella terra, sento una voce che mi chiama, che ci richiama. Non ricorderemo nulla della laurea se non il luogo da cui non ci separeremo più, come Fausto. Abbarbicati ci resteremo, legati ci resteremo e pregheremo di non lasciarci andare verso mete che già conosco, mete senza conforto.

A Urbino affido il canto, il nostro canto, se vuoi, dei cinque anni che hanno cancellato la vita e restituito la Vita, il desiderio di trattenerci, l’ardore di farci rivivere le voglie mai vissute, tutto ciò che ci è stato rubato mentre, stupidamente distratti, avevamo rivolto gli occhi altrove. Urbino serba e ci serba. I cinquecento anni dell’Università sono un soffio davanti all’eternità di Urbino. Se la tiene nel grembo, con i suoi studenti che, ignari, pensano di venirci soltanto per laurearsi. Ancora non sanno, forse un giorno lo scopriranno, che sono stati chiamati da Urbino per tornare a essere ciò che erano prima che fossero. Intanto, sulle scale del Duomo, leggevi Leopardi: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle…», mentre le stelle ci tenevano compagnia.