Elias Canetti

Elias Canetti, le matite contro la morte

Davide D'Alessandro

Il segugio del suo tempo è ancora segugio del nostro tempo, avendo assunto e meritato la classicità. Se un classico è per sempre, l’autore di “Massa e potere” è per sempre

Ho scritto Potere & Morte. Le matite di Canetti, edito da Morlacchi, perché sull’uomo di Canetti, il Canetti uomo e scrittore ha operato un’analisi lucidissima e incomparabile. Sono emerse parole, voci, maschere, immagini, forme ancestrali di paura e follia, di massa e potere, di vanità e stupidità. Le formidabili scritture trasversali che hanno catturato il secolo scorso, un secolo da prendere alla gola, due guerre, una vita e tante altre vite, dicono di un uomo, di uno scrittore, di un’opera che ancora si stagliano, inimitabili, nel vuoto panorama del secolo che non gli è stato dato di vivere. Canetti è morto, ma non è morto. Riemerge ovunque, tra una guerra e l’altra, tra un paradosso e l’altro, tra una caduta e l’altra, tra una nostalgia e l’altra, tra una paranoia e l’altra, tra una banalità e l’altra. Perché l’uomo, e lui lo aveva compreso perfettamente, è un impasto di banalità. Si regge su cose futili, adora lo specchio, vuole sopravvivere, vivere sopra qualcuno che deve fargli largo, lasciargli campo, sparire prima di lui. È bramoso di possesso, l’uomo, malattia che alimenta continue malattie, «molti son li animali a cui s’ammoglia» scrive il sommo Dante.

Si può essere Kien, Schreber, il signor Cinquanta, il dottor Sonne, si può essere tante cose e nessuna, ma nei libri di Canetti ci finiamo dentro da protagonisti o da lettori, da invasati o da meditativi, perché lo sguardo, corto o lungo che sia, ha bisogno di perdersi per cercare di ritrovarsi nella vasta autobiografia, nel romanzo, nei drammi, nei saggi, nel respiro breve, secco, ma lunghissimo e intenso di un aforisma, di una sentenza senza scampo. La rapidità dello spirito di un testimone auricolare che ha teso l’orecchio per udire e patire i traumi della storia, per salvare lingue e parole, per esaltare il tedesco pur essendo ebreo, anzi proprio perché ebreo, ci lascia in eredità un patrimonio inestimabile e un combattimento mai finito. Contro la morte.

Aveva un’anima, la sua lingua, non di nascita, ma appresa grazie all’insegnamento e all’accanimento della madre. Un’anima da scrittura autentica, priva di mediazioni e di scorciatoie, il gusto altero e ferino, una cinghia di alfabetizzazione e di trasmissione in grado di connettere passato e presente, i chiodi e le piaghe del passato, il party sotto le bombe del presente, e di pensare, di immaginare il futuro, un’idea di futuro, una realizzazione possibile di futuro. Di farlo arrivare, accadere, con le matite, con le parole, con lo spirito ardito di chi s’inoltra in un territorio privo di difese. Una lingua salvata, una scrittura salvata per salvare tutte le lingue e tutte le scritture, pagina dopo pagina, che Canetti ha scalato con rinnovato vigore, come si scala una montagna, senza mai guardare di sotto perché non è giù la meta, ma su, accanto al cielo, dove la vertigine operosa ti inebria. Munito di matita e di carta, quest’uomo persino tozzo e dal passo incerto, non ha mai smarrito il cammino, tanto chiara era la voce che udiva, tanto sua la scrittura che sentiva, nonostante i ripensamenti, le debolezze, i cedimenti, la paura di non farcela.

Alle tante città che lo hanno accolto e ospitato mentre scriveva, poiché ha più scritto che vissuto, ha vissuto scrivendo e scritto vivendo, ha lasciato le tante matite che su ogni scrivania aspettavano di essere toccate con mano, scelte con cura per incidere su carta un pensiero immediato, un capriccio irrisolto, un’intuizione fulminante. Il segugio del suo tempo è ancora segugio del nostro tempo, avendo assunto e meritato la classicità. Se un classico è per sempre, Canetti è per sempre. Non si diventa classico quando un editore decide di raccogliere in un unico cofanetto tutti i tuoi libri. Si diventa classico quando nei tuoi libri hai inglobato tutti i libri possibili, quando i simboli, le forme, gli oggetti e i fenomeni della vita e del mondo raggiungono un sapere, un vissuto, un’appartenenza universali. Sei di tutti, appartieni a tutti, perché tutti appartengono a te, sono dentro di te. 

 Non è stato il Nobel a renderlo grande, ma il fuoco che aveva dentro, una curiosità sterminata e la paura per compagna, paura che non ammette distrazioni. L’atto creativo, per Canetti, non è stato momento ri-creativo per una mera esibizione artistica e stilistica, ma assunzione di responsabilità e di indagine per guardare in faccia la realtà effettuale delle cose senza infingimenti, per giungere a una diagnosi senza sconti.

La misura di uno scrittore profondo e raffinato, colto e spregiudicato nelle brecce da scavare, nei mostri da mostrare, incontra la commedia umana dei folli e si fa scrittura e vita senza scadenza, senza fine, destinata a restare e a insediarsi dentro le menti, a sopravvivere senza vivere sopra, senza danni nei confronti di alcuno. Canetti ha mirato in alto, molto in alto, tenendo i piedi piantati per terra. Un daimon, direbbe James Hillman, lo chiamava, ne chiedeva e pretendeva la realizzazione. Lui ha assecondato la chiamata, si è fatto lo scrittore che già era prima che fosse, ha coltivato la cultura, ha letto e scoperto, dietro miti e riti, ciò che sospettava di scoprire. Le letture di Canetti hanno superato le scritture. Leggeva e scriveva, scriveva e leggeva. Forse tutte le biblioteche degli uomini con tanti libri sono destinate ad andare a fuoco, a bruciare perché hai già bruciato la vita per erigerla, per tirarla su, incurante di quanto crescesse, di quanto si allargasse, di quanto opprimesse. Come puoi, del resto, vivere per un’opera e non passare quotidianamente per la prova del fuoco, rischiando di finirci dentro, di farti rosolare o bollire senza che altri ne abbiano la minima comprensione? È una vita solitaria, in mezzo agli uomini senza gli uomini, con le storie che vengono a cercarti, a chiedere di essere raccontate perché soltanto tu, e non un altro, può raccontarle: «Narrare storie a qualcuno che le ascolta come storie, che non ti conosce, che non si aspetta della letteratura. Sarebbe bella una vita vagabonda da narratore di storie. Qualcuno dice una parola, e tu narri la storia. Non smetti mai, di giorno e di notte, diventi cieco, perdi l’uso degli arti. Ma rimane a servirti la bocca, e tu narri quello che ti passa per la testa. Non possiedi nulla, soltanto un numero infinito e sempre crescente di storie. La cosa più bella sarebbe che tu potessi vivere soltanto di parole e non avessi nemmeno bisogno di mangiare».

Canetti ha dispiegato un mondo, si è messo di lato stando al centro, perché ognuno è il centro del mondo. Dallo Steinhof di Vienna a Stoccolma, dal 1927 al 1981, l’Austria e la Svezia distano un soffio ma è stato un soffio lungo cinquantaquattro anni. Canetti non ha mai smesso di tenere la matita tra le dita di una mano e sul foglio, tenendo tra le dita dell’altra la sigaretta per aspirare fumo e arrosto, per configurare l’umano, per delineare il perimetro di una battaglia incessante contro la sua nemica di sempre. Canetti e la morte, la morte e Canetti. La scrittura non esorcizza, non lenisce la pena, anzi aiuta a tenere in vita la vita, a rappresentare il pericolo, sempre dietro l’angolo, a non temerlo, ma a sfidarlo.

Quale scrittore si era mai dato, prima di lui, e quale scrittore si è mai dato, dopo di lui, un compito così gravoso, così insostenibile, così immane? In tanti l’hanno scoraggiato, alcuni lo hanno invitato a non perdere tempo con le cose impossibili, con i mulini a vento, ma la voce interiore non ha mai cessato di chiamare e di battere e Canetti non ha mai cessato di ascoltarla e di vibrare. Aveva una sola possibilità di vittoria. Vincere scrivendo e morendo. Ha vinto andando oltre la morte scontata, certa, oltrepassando lo spegnimento di ogni organo vitale. Ha vinto con la matita, con la scrittura, con il romanzo, con i drammi, con l’autobiografia, con i saggi, ha vinto con un pensiero multiforme, metamorfico, asistematico. Non è possibile dare una sistemazione al mondo, al mondo senza testa e alla testa senza mondo. Occorre coglierne le sfumature, gli inciampi, le spine, gli accecamenti, gli ottundimenti. Occorre scrivere senza avere rispetto, senza preoccuparsi delle parole nude e scarne, della coscienza delle parole, se le parole hanno coscienza. Vanno usate le parole, non come le usava Kraus, ma usate e puntate se debbono svelare una maschera o centrare un obiettivo. L’unica guerra giusta, sacrosanta, è contro la morte. Uccidere la morte con le parole, recuperare, attraverso le parole, la dignità di opporsi, di dire no, di rifiutare ogni compromesso, di evitare ogni contatto. La scrittura, per quanto ti maceri, per quanto possa spolparti fin dentro le viscere, ti collega alla vita, esprime la forza della vita, il suo non essere per la morte. La vita vuole vivere, non morire. Il silenzio, lo sguardo rivolto altrove, l’insipienza di chi non avverte la grande ingiustizia, l’ingiusto sopruso, sono i veleni che addormentano e spengono l’uomo. Il rassegnato si consegna, Canetti ha resistito, alzato barriere, escogitato soluzioni, tentato l’impossibile.

Aveva sette anni quando la grande nemica fece irruzione nel suo giardino. Giocava. Giocare è il contrario di morire. La morte non gioca. Azzanna, strappa, morde, uccide. Padre, madre, figlio, che importa? Non distingue, la morte. Non tiene conto degli anni di un bambino. Quel giorno sceglie il padre, un altro magari il figlio stesso, oppure ci ripensa ed elimina prima la madre in modo da lasciare il piccolo orfano di entrambi. Non si cura del dolore, la morte. Lo provoca. Lo assegna. Lo distribuisce a piene mani. A Canetti è andata persino bene. In quel momento. Poi, in realtà, il caso, che si diverte quando si diverte, ha voluto che lo scrittore avesse una vita più lunga di tutti i suoi cari, fino al 1994, sopravvivendo a ognuno, tranne alla figlia Johanna, nata nel 1972. È lei l’erede, siamo noi gli eredi. Uno scrittore non scrive per la famiglia, scrive perché qualcosa resti. Al mondo, non alla famiglia. A ogni singolo uomo, che è il centro del mondo e il centro della sua scrittura. Se ogni singolo uomo apre la propria eredità canettiana sfogliando un libro come càpita, entrandoci senza bussare, senza chiedere permesso, ma fermandosi a leggere con attenzione e calandosi con passione nella passione di chi l’ha scritto, vi trova sé stesso, la sua storia, la sua ossessione, il suo non detto, il suo egoismo, la sua brama di potere, la sua paura, la sua paranoia, il suo manicomio in servizio effettivo permanente. Può scappare, fuggire, darsela a gambe. Ma se resta, trova il suo tesoro, trova sé stesso.

Non è semplice imprigionarsi in una pagina, farsi spogliare da una pagina, ma la missione dello scrittore ha lavorato per noi, sta a noi, a ognuno di noi, non renderla vana. La fatica dello scrittore si nutre di un’aspettativa, attende un riscontro. Non l’applauso, non l’urlo da stadio. Il riscontro di un cambiamento, di una svolta, di un mutamento, di uno scarto considerevole, decisivo, tra ciò che ero prima della lettura e ciò che sono dopo. Canetti ha vinto perché ha scosso l’impianto, poi l’ha fatto crollare e tra la cenere di quanto è restato, tra la polvere che ancora si alza, ha permesso di ritrovare la perla che eravamo e che potremmo tornare a essere. Ha disvelato un mondo e l’uomo, ha portato a evidenza quanto lo obnubila e lo rende meno preferibile di un animale: «Bisogna mettersi per terra in mezzo agli animali per essere redenti. Stare ritti è il potere dell’uomo sulla bestia, ma proprio in questa più di ogni altra evidenziante posizione sul potere, l’uomo è esposto, visibile, attaccabile. Perché questo potere contemporaneamente è in colpa, e solo giacenti per terra in mezzo agli animali si possono vedere le stelle che ci liberano di questo potere umano che è un potere temibile».

Si è chinato su Kafka, «al quale fu concesso di rendersi piccolo, sottraendosi in tal modo al potere». Ha scritto della pianta, dell’essere pianta, le ha dato massima espressione valoriale, per capire se, da uomini, fosse e sia consentito ossigenarsi senza togliere ossigeno agli altri, tenendo la giusta distanza. Canetti ha scritto perché ha saputo ascoltare e leggere. Si è nutrito di voci e di pagine, di echi vicini e lontani, senza distinguere lingue e colori. È davvero uno scrittore totale, perciò è riduttiva la tesi di chi continua a dipingerlo come autore di un solo libro. Canetti, paradossalmente, non è neppure autore di libri. Canetti ha scritto la vita, non ha scritto libri. Sui carichi pesanti della vita ha depositato anche il suo peso per verificarne la tenuta. Ha cercato di liberarla, mostrando come fosse e sia facile, terribilmente facile, spazzarla via o, peggio, rinunciarci. Per noia, per mollezza, per apatia, per viltà, per afasia. Vivere tra le parole, con le parole, tra le matite, con le matite, vuol dire costruire un pensiero che non poggia su alcun fondamento, ma che sia in grado di volare tenendo insieme il costrutto umano, la babele umana. Il manicomio dei folli non è a Vienna, la commedia delle vanità non è un libro di Canetti, i libri che bruciano non sono il finale di Auto da fé. Sono la nostra predisposizione naturale all’errore, al male vorrei scrivere, se Canetti mi autorizzasse a scriverlo.

La provincia dell’uomo è un reticolato di atmosfere suadenti, è un incontro religioso con la scrittura senza dogma, ma è religiosa una scrittura che si sforza di tenere insieme, di indicare i tanti tasselli di un unico quadro. Nessuno l’ha dipinto. Lo dipinge l’uomo, giorno per giorno, con i colori della vita e della morte, usando il rosso e il nero, lo fa e lo disfa l’uomo, giorno per giorno, incapace di sostare e di osservarlo. Il potere della vita è di cancellare la morte. Nessun altro potere serve all’uomo. Se non vuole essere padrone e schiavo, schiavo e padrone, dispensatore di morte altrui e propria. C’è sempre un’immagine da ritrovare nelle pagine di Canetti, tra le righe di un brano di Canetti, un’immagine che apre al mondo e alla vita: «Questo è per me l’unico criterio per una visione epica: una conoscenza della vita che non arretra davanti ai suoi aspetti più orribili e nondimeno un amore appassionato per la vita, un amore che non è nemmeno disperato perché è superiore a ogni disperazione. Né è veramente legato a una fede, perché scaturisce dalla molteplicità della vita, da ciò che la vita ha di inimmaginabile, di sorprendente, di meraviglioso, dalle sue svolte mai prevedibili. Per chi insegue la vita quasi le desse la caccia e non riesce mai a smettere, la vita si trasforma, durante la caccia, in cento creature nuove, strane, stupefacenti: e per chi dà la caccia inesausto a tutte queste cento, esse si trasformano in mille ancora che sono altrettanto nuove».

Non c’è mai la morte neppure nel libro contro la morte, neppure dove sembra esserci soltanto la morte. La morte è un incidente, un pretesto, per scrivere della vita, per esaltare la vita, per far vincere la vita. Canetti e la vita, non Canetti e la morte.