Domenico Morelli - Dante e Virgilio nel Purgatorio.

In viaggio con Dante (e con Virgilio)

Davide D'Alessandro

Senza la discesa al regno infero non si coglie il senso della vita e della morte, ma bisogna farsi guidare per mano per scoprire il tesoro, il nostro tesoro

C’è una mancanza in ognuno di noi, una mancanza dilaniante. Fu Piergiorgio Grassi, professore di Storia della Filosofia, davanti al Duomo di Urbino, a dirmi dopo appena due minuti di dialogo: «C’è in lei una tensione verso il non ancora». Che cosa manca? Qual è la ferita che chiede di essere sanata? È la perenne sete d’infinito di chi sa di essere finito? Qual è il nostro, il mio, “non ancora” quotidiano? Qual è il destino che non riesce a compiersi? Perché fugge e mi sfugge? Qual è la parte che manca per la realizzazione del tutto? E quanto sono disposto a mettere in gioco perché il mio “non ancora” accada, qui e ora?

Scrive Aldo Carotenuto: «Senza la discesa al regno infero non si acquista quel “medium” che ci relaziona alla nostra dimensione animica che, negata, assume la forza violenta e distruttiva di un istinto cieco. La mancata relazione con l’universo animico è ad esempio la causa di molte forme di nevrosi del nostro tempo, di impossibilità nelle relazioni amorose, di chiusura soffocante in un mondo fatto esclusivamente di rigide regole comportamentali e di doveri a noi esterni che ci rendono estranei alla nostra verità interiore, alla vitalità dell’eros, alla bellezza».

Come a Poker, bisogna avere il coraggio di andare a vedere. Ma lì si vince o si perde una partita a carte. Qui si vince o si perde la partita della vita. E occorre affidarsi a chi conosce il luogo, a chi ha già percorso personalmente la discesa, a chi ha già accompagnato altre anime perse, a chi è in grado di dischiudere la porticina dello scrigno dov’è nascosta la perla, il tesoro, il nostro tesoro.

Penso a Dante e Virgilio perché Rollo May, eccellente psicoanalista, ne ha scritto: «Solo attraversando l’inferno si ha la possibilità di raggiungere il paradiso. Ciò vale oggi come valeva un tempo. L’attraversamento dell’inferno è una parte inevitabile del viaggio. Anzi, ciò che si apprende nell’inferno è indispensabile per raggiungere la meta. Nel poema omerico Odisseo visita il mondo sotterraneo e là – soltanto là – acquisisce la conoscenza che gli consentirà di tornare finalmente a Itaca. Nell’Eneide, Enea scende negli Inferi, dove incontra il padre dal quale riceve istruzioni per la futura fondazione della grande città di Roma. Questi eroi ottengono nella discesa all’inferno una conoscenza vitale. Senza questa conoscenza non si può trovare la strada da seguire, non si raggiungono i doni del paradiso: purezza di vita, purezza di cuore. Dante compie il viaggio di persona; anche lui scende all’inferno e alla fine del suo viaggio scopre il paradiso. Dante scrive il suo grandioso poema perché anche noi possiamo un giorno arrivare in paradiso. Gli esseri umani possono raggiungere il paradiso solo attraverso l’inferno. Senza soffrire – come soffre, poniamo, lo scrittore nella sua tormentata ricerca della parola esatta con cui comunicare il suo messaggio – senza scandagliare i propri propositi fondamentali, non si raggiunge il paradiso. Questo vale anche per ogni paradiso di questo mondo».

L’amore per i versi di Dante, per l’opera strabiliante del sommo Poeta, iniziò ai tempi del Liceo, ma non sui banchi di scuola, bensì di pomeriggio, verso sera, a casa di un vecchio professore che, in realtà, il professore non l’aveva mai fatto. La Divina Commedia l’aveva nel cuore e mi faceva vivere palpitando ogni singola storia e figura, ogni singolo canto. Altro che Benigni! Da quei giorni non ho fatto altro che pensare a Beatrice, a Farinata degli Uberti, al conte Ugolino, a Caronte, a Guido Guinizelli, a Celestino V, a Guido da Montefeltro, a Pia dei Tolomei, a Cacciaguida. E a Paolo e Francesca. Perché se avessi timore della morte, porterei i versi di Dante davanti al Signore, aprirei al Canto V, alla voce amore. Lì c’è il senso della vita e della morte, di chi lo chiama bene e di chi lo chiama male, di chi lo chiama peccato e di chi lo chiama perdono. Lì c’è tutto. Il senso di tutto.