Marcello Mastroianni in "Sostiene Pereira"

Un'altra vita è possibile, sostiene Pereira

Davide D'Alessandro

Il capolavoro di Antonio Tabucchi e una storia di terapia analitica di Aldo Carotenuto a ricordarci che c’è sempre qualcosa che urla in un angolo buio della nostra coscienza, che chiede ascolto, che chiede prepotentemente di venire alla luce

A oltre cinque anni dalla morte, il ricordo di Antonio Tabucchi, scrittore raffinato, ci serra ai libri che accompagnano il senso di una trasformazione da tempo anelata. Ci sono libri a dirci e a ricordarci che non è mai troppo tardi per fare i conti con ciò che sentiamo, smascherando ciò che sembriamo. Ci sono libri che c’invitano alla tensione ideale, al mutamento, alla liberazione. Ci sono libri, per dirla con Marcela Serrano, con i quali è impossibile sentirsi soli. Tra questi, ce n’è uno da amare particolarmente, da non smettere di citare, di regalare, di tenere dentro di noi: è Sostiene Pereira, il capolavoro dello scrittore pisano. Pensare a Pereira è pensare, ovviamente, a Marcello Mastroianni che, nel finale del film di Roberto Faenza, percorre Avenida da Liberdade a testa alta, recuperando finalmente il passo fiero dei giorni antichi.

 

Per i pochi che non l’avessero ancora letto, il romanzo è ambientato a Lisbona nel 1934, durante la dittatura di Salazar e alla vigilia di uno dei più grandi disastri della storia. Pereira è solo «un oscuro direttore della pagina culturale di un modesto giornale del pomeriggio», il Lisboa. Ha tanto grasso addosso, è vedovo e anzianotto. È attento, Pereira, nella pubblicazione degli articoli. Non devono incorrere nella censura del regime. Ma c’è in lui un livello di capacità perturbante in sonno. Aspetta solo di essere risvegliato. Attraverso un giovane, di idee anarchiche e socialiste (Monteiro Rossi, in seguito assassinato dal regime proprio in casa sua), un cameriere e il dottor Cardoso, elementi che innescano la perturbazione, Pereira si convince che il giornalista, per quanto modesto, possa giocare un ruolo importante per la liberazione del proprio Paese. Lo farà con un intervento spregiudicato, coraggioso, che lasciamo assaporare alla curiosità del lettore ritardatario. Rischia, Pereira, rischia e rischiando ritrova se stesso. È scritto: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà».

 

Eppure, l’operazione di cambiamento non scende dal cielo. Dev’essere indotta, soprattutto quando ci si addormenta sulle stanchezze, sulle certezze acquisite, sul vivi e lascia vivere. C’è sempre qualcosa che urla in un angolo buio della nostra coscienza, che chiede ascolto, che chiede prepotentemente di venire alla luce. Occorre affidarsi alle trame che il giorno tesse per noi, agli incontri destinati a segnare la svolta. Occorre credere che un’altra vita è possibile, che la vera vita è possibile. Il riscatto non ha età. Pensare a Pereira-Mastroianni è pensare anche a Ligeia, la protagonista di La scala che scende nell’acqua. Storia di una terapia analitica, di Aldo Carotenuto.

 

Ligeia ha cinquant’anni. Vive una situazione lacerante, tra conflitti irrisolti e rapporti familiari ormai finiti. Penetrare nel mondo dell’inconscio e scioglierne i nodi è il compito che il lavoratore dell’anima si è dato. Ma l’analista di Ligeia è il Monteiro Rossi, il cameriere o il dottor Cardoso, lo strumento, il mezzo, lo specchio dove riflettersi per cogliere ciò che batte dentro di lei senza emergere ancora. Ligeia, dopo cinque anni, rinasce o, meglio, nasce a una nuova prospettiva di vita, a un certo piacere di vita. Non è mai finita per chi brama di vivere con piena consapevolezza. Scrive Carotenuto: «Durante la vita che ci è data, il compito individuale è la propria maturazione, un’individuazione tanto più piena quanto più alte saranno le mete fissate, gli obiettivi che la nostra ricerca si è proposta. Il suicidio, nel suo senso psicologico di totale fallimento esistenziale, è purtroppo molto più facile da raggiungere di quanto si creda. Compiere un atto di fede in se stessi significa allora contrapporsi a qualsiasi scelta di vita che equivalga a una morte psicologica. Ogni scelta che ci distoglie dalle nostre responsabilità è una scelta di morte, giacché si può essere morti senza saperlo». Si può essere morti senza saperlo. È stato il più illuminante insegnamento di Tabucchi e del suo capolavoro.

 

Ed è sempre grande, Tabucchi. Basta riprendere tra le mani Per Isabel. Un mandala, primo inedito postumo della sua opera, pubblicato da Feltrinelli nel 2013, e se un giovane ci chiede e si chiede come dev’essere l’incipit di un libro, noi non facciamo altro che aprirlo a pagina 15 e leggere: «Non ero mai stato al Tavares, in tutta la mia vita. Il Tavares è il ristorante più lussuoso di Lisbona, ci sono specchi ottocenteschi e sedie di velluto, si mangia cucina internazionale ma anche la cucina portoghese tipica, però sistemata in modo delicato, per esempio tu ordini vongole e maiale, come si fa in Alentejo, e loro te lo cucinano come se fosse un piatto parigino, così almeno mi avevano detto»; e se lo stesso giovane, o magari un suo amico, ci chiede e si chiede come dev’essere il finale di un libro, noi non facciamo altro che riaprirlo a pagina 117 e leggere: «Io alzai gli occhi verso la volta celeste e vidi una stella che riconobbi. Mi incamminai. E in quel momento vidi Isabel. Sventolava una sciarpa bianca e mi stava dicendo addio».

 

Se per il suo e il nostro amato Pessoa «il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente», Tabucchi finge di lasciarci. Finge così completamente che arriva a fingere che è passione la passione che davvero sente. E che resta, hai voglia se resta. I capolavori (e i grandi scrittori) non si spengono. Restano per sempre. Perenni classici. Classici e contemporanei. Classici perché contemporanei.