Il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e quello della Commissione europea Jean-Claude Juncker (foto LaPresse)

Cosa resta dell'Europa

Matteo Scotto

Con l’elezioni politiche in Italia in Europa siamo arrivati finalmente alla fine della serie di appuntamenti elettorali  che a detta di molti avrebbero dovuto determinare il futuro dell’integrazione europea. Cosa resta tuttavia sono sterili eco di richiamo all’ordine, tronfie di un successo economico mal capito e mal distribuito. 

Con l’elezioni politiche in Italia, dagli svolgimenti ancora incerti, in Europa siamo arrivati finalmente alla fine della serie di appuntamenti elettorali — Olanda, Francia, Austria, Germania — che a detta di molti avrebbero dovuto determinare il futuro dell’integrazione europea. Ora che il futuro è arrivato e come sempre nessuno sa di cosa si tratti e che cosa esattamente comporti, non ci resta che fare un po’ come Lord Jim di Joseph Conrad. Da un lato pentirci, perché in fondo tutto sarebbe potuto andare diversamente — meglio forse — se solo avessimo fatto una scelta piuttosto che un’altra; e dall’altro sospirare, vanagloriandoci che potrebbe andare anche peggio. Infine ripartire e prepararci per nuove avventure: forse non così gloriose, ma sufficienti a farci tirare a campare. Doveroso è tuttavia, guardando all’Europa, sforzarsi anche solo per un istante di essere pessimisti nell’intelletto e ottimisti nella volontà, riprendendo il motto di Romain Rolland reso celebre da Antonio Gramsci. Ammettendo di conseguenza che, al di là dei singoli casi, la grande sconfitta del recente subbuglio politico del nostro continente è un’idea, una certa idea d’Europa. Quella pensata più di sessant'anni fa, emersa nella Dichiarazione di Schuman del ‘50, la stessa che sottende, in teoria, l’Unione europea e il suo apparato istituzionale, che altro non è che l’espressione delle volontà dei singoli Stati e dei loro leader politici. Ecco, quell’idea di comunità, intesa in senso sociologico e antropologico, dunque solidale nei fatti e, riprendendo Schuman, pronta a salvaguardare la pace — oggi necessariamente sociale, economica, fisica, ambientale — con sforzi creativi proporzionali alle sfide del nostro tempo, non si è in alcun modo realizzata. Al contrario, ciò che in questi anni di svariate crisi di varia natura ha fatto da padrone è stato un particolarismo cronico: miope e trafelato in difesa di un famigerato interesse nazionale; vano nella persuasione che quest’ultimo possa essere tutelato entro gli antichi confini dello Stato nazionale. Una diffidenza che altro non è che rivelazione del senso comune dei cittadini, come l’Italia ha dimostrato, più o meno consapevoli e più o meno manipolati dalla nuova e vuota politica post-ideologica. Sono due i fronti principali di sconfitta in terra europea, palesatisi chiaramente nei ripensamenti dell’Unione economica e monetaria e nella mancata risoluzione della cosiddetta crisi migratoria. Il primo riguarda l’assenza di un qualsivoglia accrescimento del senso di solidarietà tra membri della della stessa comunità, dove oggi ognuno è causa del suo mal e salva se stesso. Il secondo riguarda l’affievolirsi di un sentimento di apertura e del convincimento che la comunità, debole nelle su stesse strutture interne, non possa allagarsi e accogliere nuovi membri. Basti guardare l’Europa a due velocità — ora anche a due Stati membri, Francia e Germania — che sta prendendo piede, con l’Europa centro-orientale avversa e esclusa, l’Europa settentrionale indifferente e quella meridionale non pervenuta. Cosa resta sono sterili eco di richiamo all’ordine, tronfie di un successo economico mal capito e mal distribuito, che ossibuchivori alla Juncker non si esimono dal strepitare dalla lontana Bruxelles, «vituperio de le genti», assoggettata ai propri canoni tecnico-burocratici che la rendono facile preda di un neo-sovranismo dell’ultima ora. Cosa resta è una mera Unione di Stati — se di un’Unione si può parlare — che o collabora se e quando tutti gli interessi particolari sono accomodati, o procede, legittimamente, su altre vie, diventando una volta più piccola. L’ultima istituzione brussellese simbolo della fantomatica democrazia europea, il Parlamento, perde i pezzi, tanto che i suoi presidenti, due negli ultimi mesi, non sprecano l'occasione di tornarsene in patria al primo richiamo. Questo, volenti o nolenti, è ciò che rimane dell’Europa e probabilmente anche il massimo raggiungibile nella contingenza storica in cui ci troviamo. Chi, come Faber, non vuole regalare terre promesse a chi non le mantiene, non può far altro che stare a guardare, come Teresa a Rimini, in attesa della prossima estate.