Jean-Claude Juncker (foto LaPresse)

Sullo Stato dell'Unione: Juncker e il rilancio della Commissione europea

Matteo Scotto

La Commissione torna a svolgere il compito di rappresentante e catalizzatore di un interesse europeo che va al di là della logica egoistica degli Stati membri.

Ogni eurotomane che si rispetti gode della fine dell’estate, se non altro per il lunghissimo periodo che quest’ultima ci costringe lontano dagli affari europei. Europarlamentari in ferie, istituzioni deserte, giornali soporiferi: “come a vedere un fiore passare all’appassimento e alla polvere”. Un’incubo, che prende forma nell’oziosità di una domenica al mare, così immobili e condannati al non far nulla, con nello sguardo l’incomprensione nei confronti di chi trova la felicità in una nuotata alla boa piuttosto che in una direttiva fresca di stampa da Bruxelles. Per fortuna il tempo ci restituisce settembre e con esso lo Stato dell’Unione, l’arringa pronunciata ex-officio dinanzi all’assemblea parlamentare dei cittadini europei dal presidente della Commissione europea, che fa il punto sull’anno in corso e tratteggia i progetti futuri alla luce delle sfide che l’Unione si trova ad affrontare. Così parlò Mr. Jean-Claude Juncker, con la consueta cravatta pittoresca e lo stile sardonico, di fronte a un Parlamento europeo a dire il vero un po’ fiacco, forse ancora in preda ai fumi delle vacanze estive. Nel suo discorso, Juncker ha subito sfoggiato il meglio del suo repertorio retorico paragonando la UE a una nave, che “ha di nuovo i venti a favore” e che deve “fissare la rotta per il futuro”. In effetti, i dati economici gli danno ragione e confermano di fatto che l’Unione europea nel suo insieme si sta riprendendo bene, è in crescita e con la disoccupazione in calo. Sul fronte politico, i populismi — mai ci fu parola tanto insignificante e Dio ci perdoni per usarla così indebitamente — o hanno miseramente fallito come in Francia o Olanda, o hanno raddrizzato il tiro come in Italia, dove da buoni borghesi hanno smesso di parlare d’improbabili uscite dall’Euro e iniziato a prendere seriamente una moneta che per tanti versi ci ha salvato il fondoschiena. Economics matters, idiot. Alla Commissione Juncker mancano sedici mesi di mandato e come il Re Lear anche lui vorrebbe lasciare qualcosa in eredità, che consegni alla storia un uomo forse non troppo intrepido, ma almeno giusto, che ha fatto del suo meglio per riaccendere la scintilla dell’integrazione. Un ruolo di faro che la Commissione, per eccessiva esitazione, si è vista usurpare dai capi di governo riuniti nel Consiglio europeo, che da molti anni ormai svolge illegittimamente una funzione di leadership, causa principale della UE dei compromessi al ribasso e che per di più consolida l’egemonia di paesi fisiologicamente più influenti come la Germania. La Commissione si è trovata così a navigare in pessime acque, presa tra l’incudine nazionalista degli Stati e il martello accusatorio dei cittadini, con un ruolo meramente esecutivo e non più direttivo, come dimostrato dal peggiore libro bianco sul futuro dell’Europa mai pubblicato nella sua storia, dove vengono considerati persino scenari che prevedono la fine del progetto europeo. Come se un pilota iniziasse in modo nevrotico a puntare dritto contro un muro anziché al traguardo finale. Tuttavia Jean-Claude Juncker, meglio tardi che mai, ha cercato di tirare le redini e ritemprare il cavallo, mettendo sul piatto cinque priorità programmatiche che sanno di utopia realista, da perseguire nei prossimi anni tra il bosco di rovi che è diventata la Brexit, di cui nessuno pare sapere se e come andrà a finire. Un insieme di politiche comunitarie da rafforzare che vanno dal commercio internazionale, all’industria, passando per la lotta ai cambiamenti climatici, per la sicurezza e infine per la migrazione, tema sul quale il presidente della Commissione ha speso una parola di merito per l'Italia, che ha “salvato l’onore dell’Europa nel Mediterraneo”. Una visione, che per quanto ancora lontana dal completamento di una federazione degna di questo nome, contiene tratti identitari forti e compiutamente europei, come la convinzione di un’apertura, seppur ponderata, nei confronti del mercato globale, l’investimento in un’industria competitiva e leale, un’impegno serio per l’uso efficiente e lungimirante delle risorse ambientali, la disponibilità ad accogliere chi ne ha bisogno a casa nostra e chi no a casa propria, che rispetto a tutti gli altri continenti del pianeta è già parecchio generoso. La Commissione torna così a svolgere il compito che le spetta, vale a dire quello di rappresentante e catalizzatore di un interesse europeo che va al di là della logica, per forza di cose egoistica, degli Stati membri. Sta a Juncker non mollare la presa e perseverare nei prossimi mesi cercando di portare a casa qualche risultato, che come il suo inglese, non sarà il massimo, ciò nonostante utile a porre le basi per un nuovo capitolo dell’integrazione dell’Unione volto, citando Jean-Claude, a “costruire un’Europa più unita, più forte e più democratica da qui al 2025”.