Equilibrismi franco-germanici

Carlo Torino

La dottrina di mercato contro il “Genio dell’europeismo”: default automatico e rischio bancario.   

È indubitabile che dall’evoluzione nelle dinamiche dei rapporti di forza franco-tedeschi emergeranno i futuri assetti di governance in seno all’Unione economica e monetaria. Di più: l’intransigentismo germanico trae i suoi titoli di legittimazione intellettuale da presupposti ideologici visibilmente inconciliabili con il nuovo «Genio dell’europeismo», propugnato con straordinaria veemenza retorica da Emmanuel Macron. È la sintesi contemporanea dell’eterno confronto dialettico fra il solidarismo sociale e l’universalismo cattolico da una parte, contro il razionalismo empirico e il volontarismo egemone del protestantesimo dall’altra.

Le ragioni del disallineamento ideale – abilmente dissimulate dietro una spessa coltre di fantasmatiche convergenze di propositi universali – sono prima o dopo destinate a emergere in tutta la connaturale rigidità propria di ogni dissidio teologico, di ogni scontro integrale fra opposte dottrine.

La Germania, è oramai evidente, mal sopporta le tortuosità, e le intemperanze e gli indugi decisionali tipici della fisiologia democratica. Le sue élite economico-politiche giudicano con insuperabile sospetto ogni teoria di riforma che in qualche modo s’innesti sul tronco dell’istituzionalizzazione di una forma di controllo politico: sia esso squisitamente federale, o intergovernativo. S’è progressivamente venuta radicalizzando, a torto o a ragione, un’impenetrabile forma di rifiuto pregiudiziale verso ogni forma di ulteriore condivisione di rischio, quando non congiunta ad automatismi economico-giuridici che salvaguardino la disciplina di mercato, e tutelino l’integrità delle finanze pubbliche tedesche.

Se da una parte viene riconosciuta l’esigenza fondamentale di procedere verso una maggiore integrazione fiscale – processo a questo punto ineludibile ai fini della stabilità della moneta unica –, non v’è dall’altra una sintonia ideale e programmatica sugli assetti istituzionali comuni da conseguire. Se la Francia preme per il mutamento genetico dell’Meccanismo di stabilità in Fondo monetario europeo, alimentato da appositi trasferimenti fiscali nazionali (da definire poi con quali specifiche voci di bilancio), e con al vertice un ministro unico delle finanze Europeo (a un tempo vicepresidente della Commissione e presidente dell’Eurogruppo). È evidente che tale premessa costituisca al fondo la giustificazione logica sulla quale poggia il corollario di una capacità di finanziamento indipendente dell’Eurozona, garantita da tutti gli stati nazionali aderenti alla moneta unica – antica figurazione utopica, mai del tutto divelta dalla coscienza storica dei ceti dirigenti francesi.

È proprio questo il punto sul quale s’innervano le mille sfumature che caratterizzano l’eterno dissidio franco-tedesco. La Germania pone una pregiudiziale di principio insuperabile alla mutualizzazione dei debiti sovrani: essa pretende ­– non del tutto irragionevolmente ­–­ l’inserimento di meccanismi di ristrutturazione automatica del debito di quei paesi che eventualmente verranno a trovarsi nell’infausta condizione di dover chiedere assistenza al costituendo FME. Di più: è essenziale porre fine al «circolo demonico» Stato-banche. In che modo? Non è semplice formulare riposte univoche: porre una soglia limite nelle esposizioni degli istituti domestici ai titoli emessi dal proprio stato; ovvero incrementare i coefficienti di ponderazione del rischio attribuito a tali strumenti, determinandone un maggiore fabbisogno di capitale prudenziale. Entrambe esiziali per l’Italia, se non congiunte a fasi di transizione sufficientemente estese nel tempo.   

Immaginare che la Germania possa flettere dalle sue posizioni, abiurando le tesi della dottrina di mercato, è semplicemente inverosimile: e ciò soprattutto alla luce della configurazione di governo che sta già emergendo. Immaginare una conversione sui temi dell’assicurazione europea sui depositi (EDIS), su di un eventuale schema di sostegno comune alla disoccupazione; o ancora ritenere plausibile un mutamento di opinione in ordine alla risoluzione del problema delle sofferenze bancarie attraverso soluzioni congiunte, non è se non ingannarsi ingenuamente, rifiutare la cruda realtà effettuale. Se non vi saranno contropartite in termini di sostanziali riduzioni di rischio, la possibilità che si prefiguri un gramo compromesso esteriore ­– che consenta ad entrambi di reclamare in patria le virtù della loro politica di integrazione (e ciò vale in specie per Macron) – appare tutt’altro che remota.