Le (inutili) lezioni della crisi (bancaria)

Carlo Torino

La professoressa Reichlin suggerisce la costituzione di un Fondo di ricapitalizzazione, in connessione alla creazione di una bad bank centralizzata a controllo pubblico. Ma forse serve altro

È palese che un approccio iper-normativo, che miri a stabilire regole certe e automatismi giurisdizionali, in materia di dissesto bancario è destinato a fallire. A rimanere un’utopia scientistica esulante dalla cruda realtà dei casi specifici. La questione delle venete è profondamente diversa da quella del Monte dei Paschi, la quale a sua volta, differisce da quella del Banco Popular; dal caso cipriota, esso stesso essenzialmente difforme da quello delle banche greche o tedesche, nella sua genesi come nella sua risoluzione. L’impianto istituzionale di una vigilanza bancaria unica e di un Comitato di risoluzione in seno alla Bce esiste; e i suoi principi tecnico-normativi: direttive, regolamenti, leggi nazionali di recepimento, sono alquanto chiari. Si pone il problema, come in ogni rapporto giuridico, della interpretazione ai casi specifici, dell’applicazione alle fattispecie concrete. E queste, come asserito sopra, si differenziano in misura sostanziale. Se è dunque evidente che un’estensione del perimetro di vigilanza del Meccanismo unico (Ssm) ­– per esempio anche nei confronti di istituti di minori dimensioni (si veda il caso archetipico, quello della Germania, con il 75% del suo sistema che sfugge ai controlli) ­–; non è altrettanto auspicabile la creazione di ulteriori istituzioni preposte a nebulose funzioni di coordinamento tra autorità nazionali e comunitarie; ovvero indulgere in inutili disegni per la costituzione di un “fondo di ricapitalizzazione”, come propugnato dalla professoressa Reichlin. Esiste già il Fondo interbancario di tutela dei depositi; così come è in procinto di essere capitalizzato il Fondo di risoluzione unico (Srb); abbiamo altresì, come paese aderente, contribuito (fino a 120 miliardi, di cui 16 già erogati) a finanziare il Meccanismo di stabilità europeo (Esm), il quale è peraltro intervenuto nella crisi ellenica, così come in quella di Cipro e in quella iberica. Sfugge alla comprensione il senso di impellenza di un ennesimo ente preposto a vigilare sulla stabilità finanziaria, ovvero a fungere da prestatore ­– o dovremmo dire “azionista” – di ultima istanza. V’è già un’Autorità bancaria europea, agenzia indipendente dell’Unione, con responsabilità normative specifiche in materia di vigilanza prudenziale; esiste l’Autorità europea per gli strumenti finanziari (Esma), e quella delle assicurazioni; e come non ricordare il Comitato europeo per il rischio sistemico.

 

Affiora dunque in certo modo un’insinuante inclinazione verso una forma di bulimia burocratico-normativa di una fronda interna alle élite accademiche di oltremanica. Adombra una scaltra ingenuità la volontà di creare norme e istituzioni che prevedano tutto, e a tutto pongano un universale rimedio. Specie in ambito finanziario, con le sue connaturate idiosincrasie. E perché non invece discutere di un mutamento negli obiettivi della Banca centrale europea? Del suo statuto, introducendovi, oltre alla stabilità dei prezzi, anche quello della stabilità finanziaria? Ovvero ragionare in ambito di istituzioni già esistenti. Non occorre sforzarsi poi troppo per comprendere che l’attuale impianto istituzionale di intervento nelle crisi bancarie ­– nel caso specifico delle venete – non abbia operato in maniera ottimale; con ritardi intollerabili, e un confusionismo del tutto ingiustificato. Ma forse tutto ciò è dipeso proprio dalla duplicazione dei ruoli, dalla necessità di ottenere troppi “imprimatur” da troppe autorità.

 

E non ha valore affermare che, da oggi, i mercati tenderanno a considerare ristabilita la garanzia implicita dello Stato sulle obbligazioni senior. A breve vi saranno gli obblighi di emissione dei cosiddetti titoli di debito con caratteristiche di assorbimento delle perdite in caso di Bail-in, in conformità ai principi tecnici Mrel/Tlac. Sarà più agevole distinguere tra il passivo che potrà essere sottoposto a decurtazioni nel suo valore in caso di dissesto, e quello invece destinato a rimanere integro.