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Le armi giuste contro l'altra guerra di Putin, quella ibrida

Paola Peduzzi e Micol Flammini

In Europa c’è un fronte più esposto di altri alle interferze russe, ma ha imparato a difendersi da spie e troll. I metodi, gli attacchi e la propaganda del pettegolezzo

Visi di granito grigiastro. Espressioni facciali assenti e voci monocorde. Occhi che esprimono prima di tutto un’efferatezza distaccata, una brutalità abusata al punto da diventare noia. Chiunque abbia provato a leggere nelle espressioni dei generali di Vladimir Putin è rimasto intrappolato in un labirinto di contraddizioni pericolose e audaci previsioni smentite puntualmente dalle decisioni del presidente russo. Meglio non giocare a interpretare il bagliore brutale degli sguardi dei generali di Mosca, tanto ingessati da sembrare finti, robotici, impigliati in una teca fatta di violenze e rimpianti per un impero da riconquistare con ogni mezzo. Tra tutti i generali, tutti gli uomini in mostrine del presidente, uno su tutti ha scatenato previsioni inesatte, aspettative infrante, speculazioni sfrontate: Valeri Vasilevic Gerasimov, nato a Kazan nel 1955, in uniforme, prima sovietica e poi russa, dal 1976. Gerasimov è il capo di stato maggiore delle Forze armate russe e tra tutti i volti inespressivi dell’esercito di Mosca, il suo è il più refrattario alla mimica. I romantici si chiedono se abbia un’anima, gli sfrontati se abbia una testa con cui pensare o se sia programmato soltanto per obbedire. Gerasimov parla pochissimo, sorride altrettanto, fa parte della triade che decide se lanciare o meno un ordigno nucleare – gli altri due sono il presidente e il ministro della Difesa Sergei Shoigu. Ha vissuto tutte le guerre russe, inclusa la Cecenia e da gennaio è a capo della guerra in Ucraina. Una promozione? No, occuparsi del campo di battaglia è un calice amaro e Gerasimov dovrà confrontarsi con le aspettative molto alte di  Putin che non ha esperienza militare: se fallisce, potrebbe sperimentare la fine rapida di una carriera lunga. Poco dopo il suo nuovo incarico, il generale Gerasimov ha rilasciato un’intervista a Argumenty i Fakty, un settimanale che raccoglie spesso le dichiarazioni di uomini importanti della cerchia del potere russo. In quell’occasione disse che per la Russia la vera minaccia non veniva dall’Ucraina ma dalla Nato, dalla sua espansione, e quindi bisognava pensare a neutralizzare i pericoli dell’occidente. Aveva prospettato riforme delle Forze armate russe per fronteggiare questa minaccia e aveva promesso di neutralizzare le insidie che provenivano dall’“occidente collettivo”, termine con cui Putin e i suoi si riferiscono in generale ai paesi non autocratici. Ci si aspettava qualcosa di più da questo generale di poche parole: un manifesto programmatico delle Forze armate, un testamento sui futuri mesi di guerra. Invece l’intervista ad Argumenty i Fakty poco aveva a che fare con l’articolo dal titolo: “Il valore della scienza nella previsione”, uscito nel 2013 sulla rivista Voenno Promyshlennyj Kur’er, e che fu interpretato come il pilastro delle future guerre di Mosca, tanto da essere conosciuto come “la dottrina Gerasimov”. 

 

I confini della guerra. Partiamo da una precisazione: la dottrina Gerasimov non esiste. Fu Mark Galeotti, grande esperto di questioni russe, a dare questo nome all’articolo del generale russo, salvo poi pentirsene qualche tempo dopo. In un articolo pubblicato su Foreign Policy lo studioso spiegò che la definizione gli servì per descrivere la guerra non lineare russa e rendere più comprensibili concetti altrimenti complessi. Il danno però era ormai fatto e lo scritto di Gerasimov è stato preso come una dottrina e, soprattutto, al generale sono state affibbiate capacità di predizione e vaticinio: l’articolo era apparso un anno prima dell’occupazione della Crimea e della guerra nel Donbas e nessuno lo aveva preso in considerazione, ma dopo gli eventi in Ucraina del 2014 divenne un testo letto e riletto per capire le aspirazioni belliche di Mosca. Rileggendolo, si trovano informazioni importanti, come l’attenzione che da sempre ha Mosca per le operazioni di maskirovka e di  infowar. Mascherare, manipolare, insinuarsi nelle menti e nelle informazioni ha portato Mosca a investire sempre di più in questo tipo di attacchi che da tempo sono rivolti contro i paesi occidentali. A fianco a queste operazioni, il Cremlino non ha mai smesso di sguinzagliare la sua rete di spionaggio, un’arma che dopo l’invasione dell’Ucraina è rimasta piuttosto spuntata. Contro Kyiv Mosca usa le bombe, parallelamente contro gli alleati occidentali, la guerra russa prevede un arsenale diverso. Alcuni paesi europei lo temono più di altri, si sono corazzati e hanno paura che queste offensive possano aumentare. Tra i fronti senza bombe, c’è ne è uno più esposto degli altri, lo ha detto anche il generale Gerasimov: quello del nord, dove la Russia ha fatto venire una grandissima voglia di Alleanza atlantica. 

 

Gerasimov indossa l’uniforme dal 1976, ora è a capo delle operazioni militari in Ucraina. Non è una promozione

 

Il rogo del Corano in Svezia. Indagando sulla protesta in Svezia in cui è stato bruciato un Corano, il 21 gennaio scorso, s’è scoperta, senza troppo stupore, un’interferenza russa. La protesta è stata guidata da Rasmus Paludan, un politico danese di estrema destra che non è nuovo a questo genere di operazioni ma che ha detto che l’idea era “di alcuni svedesi che volevano che io bruciassi un Corano di fronte all’ambasciata turca”. Secondo alcuni media svedesi, il permesso per fare la protesta è stato richiesto da Chang Frick, un giornalista sostenitore di Vladimir Putin che ha lavorato per Russia Today e ha creato un suo sito di informazione “alternativa”, che si chiama Nyheter Idag. Il nome di Frick compare in un’inchiesta del New York Times del 2019 che raccontava le interferenze della Russia nella politica e nella società svedese, tra provocazioni e sostegno ai media di estrema destra che hanno contributo a polarizzare il dibattito (anche) in Svezia. Frick ha detto di essere stato contattato da un sito svedese, Exakt24, che gli ha detto che un politico danese stava organizzando una protesta ma aveva bisogno che qualcuno facesse la richiesta e pagasse la tariffa prevista: Frick ha detto di averlo fatto in nome della libertà di espressione. Exakt24 ha però fornito una versione diversa: il sito è stato contattato da Frick che stava cercando qualcuno che bruciasse un Corano davanti all’ambasciata turca e che avrebbe pagato lui tutte le spese. Exakt24 ha detto: chiamate Paludan. Frick ha poi detto a un altro media svedese di non avere più rapporti con Russia Today dal 2014.  Un “giornalista indipendente” finlandese che sostiene la Russia, Panu Huuhtanen, ha detto che vorrebbe ripetere la protesta e il rogo in Finlandia, sempre davanti all’ambasciata turca. Recep Tayyip Erdogan, presidente turco alle prese con le conseguenze del terremoto devastante  tra Turchia e Siria, e che in primavera ha una tornata elettorale delicata, ha preso al volo il pretesto del rogo del Corano per rimandare ulteriormente il suo voto di ratifica dell’adesione della Svezia alla Nato. Naturalmente la Russia, che dopo un anno di bombe e attacchi in Ucraina continua ancora a ripetere che è la belligeranza di una Nato molto allargata ad averlo costretto all’invasione, apprezza il procrastinarsi della decisione sulla Svezia e sulla Finlandia, l’altro paese che aspetta il voto turco. Erdogan sta sfruttando al massimo questo suo ruolo decisivo nell’Alleanza atlantica per ottenere il più possibile: armi dagli americani, mano libera contro i curdi in Siria, la consegna da parte di Stoccolma di oltre cento persone, comprese alcune che hanno il diritto d’asilo in Svezia perché considerate dissidenti e che invece per Ankara sono terroristi. In Svezia la comunità curda è grande, circa 100 mila persone, in Finlandia 15 mila. Mentre Erdogan s’appiglia a ogni pretesto per estendere il proprio potere tra gli alleati occidentali, gli agitatori filoputiniani sono molto attivi per costruirglieli, questi pretesti.

 

A scuola di disinformazione. La Finlandia, in questo triangolo con la Turchia, è in una posizione privilegiata: alcuni commentatori dicono che anzi Erdogan potrebbe dare il via libera all’adesione di Helsinki ma non di Stoccolma, giusto per creare un ulteriore grattacapo alla Nato, con tutto vantaggio di Mosca. In Finlandia la lotta alla propaganda russa è diventata una materia scolastica, tanto che secondo un’indagine sulla “alfabetizzazione mediatica”, cioè sulla capacità di decifrare le fake news nel flusso frammentato dell’informazione, il paese compare al primo posto, seguito da Norvegia, Danimarca, Estonia, Svezia e Irlanda (l’indice è stato calcolato dall’Open Society Institute di Sofia: non stupirà sapere che l’Italia sta nella seconda metà della classifica dei 41 paesi europei, assieme a Slovacchia, Croazia, Malta, Ungheria e Cipro). In Finlandia, che come è noto ha un sistema scolastico molto riconosciuto nel mondo (e un gran rispetto degli insegnanti e in genere delle istituzioni: anche per questo hanno fatto tanto scandalo i balli festaioli della premier, Sanna Marin, che ha dovuto scusarsi pubblicamente)  l’alfabetizzazione mediatica inizia, in modo giocoso, fin dalla scuola materna. Il programma è iniziato nel 2013, comincia dai fondamentali, come illustrare la differenza tra quel che si vede su TikTok e quel che si legge sui giornali finnici e poi si procede con l’analisi dei titoli, dei testi, delle fonti, dei video. Un modo facile per intercettare la propaganda straniera, hanno raccontato alcuni insegnanti al New York Times, è la lingua: se ci sono errori di grammatica o di sintassi, probabilmente è stato usato un traduttore automatico. Una professoressa ha fatto un test proprio sui video delle feste della Marin: nonostante l’attenzione alla materia, buona parte dei suoi studenti era convinta che la premier avesse assunto delle droghe. L’ho visto su TikTok, dicevano i ragazzi. Secondo molte fonti, era la propaganda russa. 

 

In Finlandia la lotta contro la disinformazione  è  una materia scolastica, non per nulla è ai primi posti  tra i paesi europei

 

Le spie ovunque. Il 24 ottobre scorso, la polizia norvegese è arrivata all’Università di Tromso, sul circolo polare artico, con un mandato d’arresto: cercava José Giammaria, un ricercatore brasiliano che si era autofinanziato la ricerca (cosa piuttosto rara) e piuttosto taciturno. Il suo vero nome era Mikhail Mikushin, ed era una spia russa: in effetti, hanno poi detto i colleghi, non lo avevano mai sentito parlare portoghese, né delle sue ricerche. Così, nello sconcerto di tutti, è diventato chiaro che oltre alla disinformazione, e ben oltre la minaccia militare, i paesi europei, soprattutto quelli più duri con la Russia, sono pieni di spie e di sabotatori. In Germania ci sono droni che volano sopra le basi dove si addestrano i soldati ucraini: potrebbero essere russi; alcuni cavi marini vicini alla costa francese sono stati sabotati e resi inutilizzabili: potrebbero essere stati i russi, e via di esempi e sospetti. La Russia parla da sempre di “isteria” nei suoi confronti, ma i paesi europei hanno imparato che l’attenzione non è mai abbastanza: il governo di Oslo registra tutti gli incidenti ritenuti strani,  sabotaggi, droni non identificati, o le forniture d’acqua che non funzionano più proprio vicino alle basi militari. Poi indaga e tira i fili: al momento è in corso il processo ad Andrei Yakunin, figlio di Vladimir Yakunin, uno stretto collaboratore di Putin, che è accusato di aver fatto volare droni-spia dal suo yacht, il Firebird. Lui nega, “non sono una spia, ho solo la collezione dei film di James Bond”, ha detto con un sorriso sprezzante. Un altro ingegnere russo è accusato di spionaggio perché è stato trovato con delle foto di mezzi militari scattate da una cancellata. Anche lui dice di non aver fatto nulla di illegale, ma a differenza del figlio di papà sullo yacht, piange in tribunale dicendo che è l’unico a poter sostentare la sua famiglia e deve tornare a lavorare. Anche le autorità e i giudici norvegesi si muovono con molta cautela: sanno che le ingerenze del Cremlino sono molte e multiformi, ma non vogliono cadere nell’altra trappola, quella della discriminazione di chi ha la nazionalità russa. 

 

La corazza di Visegrád. Non c’è campo che la Russia ritenga troppo arduo per le capacità della sua disinformazione. Non c’è frontiera che non tenti di abbattere. Oltre a impegnarsi a nord, anche nel composito universo di Visegrád tenta di agire e fare pressione sull’opinione pubblica. In Ungheria riceve un buon aiuto dalla grancassa del primo ministro Viktor Orbán e anche nella vicina Slovacchia è riuscita a farsi strada nella popolazione, nonostante il governo di Bratislava abbia tenuto nei confronti della guerra un atteggiamento molto diverso rispetto a quello di Budapest. A luglio il giornale slovacco Dennik N aveva fatto un sondaggio tra la popolazione e aveva scoperto che la maggior parte dei cittadini credeva nella vittoria della Russia in Ucraina. A dicembre il quotidiano è tornato sull’argomento scoprendo che i sostenitori di una vittoria di Mosca si dividevano in hard e soft, i primi traggono principalmente le notizie da internet, sono convinti che Zelensky sia nascosto chissà dove e credono che i media tradizionali eseguono il compito ricevuto dalle istituzioni: coprire la verità. La Slovacchia è ritenuto un campo abbastanza semplice per la disinformazione, ma forti tentativi di modellare l’opinione pubblica ci sono stati anche in Polonia. Una delle prime teorie del complotto sullo scoppio della guerra raccontava che ci fosse un asse assai bislacco tra Russia, Polonia e Ungheria  per spartirsi l’Ucraina. Nelle scorse settimane una bufala che aveva a che fare con la Polonia si è insinuata anche nel dibattito italiano ed è stata ripetuta da esperti e analisti in televisione. La notizia riguardava l’entrata in guerra in primavera di soldati polacchi mandati dal governo a combattere al fianco dell’esercito di Kyiv. La notizia arrivava da un un sito polacco, il Niezalezny dziennik polityczny, che raccontava come Varsavia preparasse un’operazione su larga scala in Ucraina. La notizia è stata ripetuta più e più volte anche nella Duma russa, dove più di un deputato sicuramente è al corrente del fatto che il giornale polacco ha una storia alquanto oscura e un legame con i servizi segreti russi. 

 

In Polonia la propaganda russa pare aver pensato anche a idee più bizzarre per indebolire il sostegno dei polacchi. Una delle bufale messe in circolazione sui social riguarda il fatto che chi fugge dall’Ucraina cerca una vita stabile in Polonia e sono soprattutto le donne ad andarsene e, consapevoli che potrebbero non rivedere più i loro mariti, si affrettano a irretire uomini polacchi, sottraendoli così alle povere polacche che, non soltanto si sarebbero tanto adoperate per aiutare le ucraine con i loro bambini in fuga dalla guerra, ma ne riceverebbero in cambio uno sgarro tanto subdolo. Questa bufala è girata molto sui social, dove account femminili si beffano dell’accoglienza di Varsavia e probabilmente in qualcuno avrà anche fatto breccia, nonostante il popolo polacco sia coriaceo nei confronti della disinformazione di Mosca. Ognuno ha le proprie debolezze, ma cari troll e care trollesse, tra popoli fratelli si condivide tutto.