Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell’Ue (foto LaPresse)

Europeismo sistemico

Paola Peduzzi, Micol Flammini e David Carretta

Tra America, Cina e Russia, dove si colloca l’Europa? Un ritratto politico del nostro volto nel mondo, Josep Borrell, il ritiro americano dalla Germania e le divergenze che ci fanno più forti

L’Europa cerca un suo posizionamento geopolitico mentre importa crisi dall’America – e le amplifica, basti vedere cosa sta succedendo con le statue rimosse o sfregiate o controllate dalle ronde di estrema destra: un disastro soprattutto britannico – e s’incaglia sulla sua relazione con la Cina. Quella con la Russia è già incagliata da anni. Non è mai stato facile, per l’Unione europea, trovare al tempo stesso una sintesi delle proprie, tante anime e un punto d’equilibrio tra le superpotenze, ma ora sembra un po’ più difficile: dove vai, e con chi, e per quanto, se non sai più riconoscere al primo colpo se un paese è un partner strategico o un rivale strategico? La questione, in fondo, è tutta qui. Chi è mio amico, chi non lo è. A questo proposito, il vicepresidente del German Marshall Fund, Thomas Kleine-Brockhoff, dice una cosa brutale: per Donald Trump, presidente americano, “il rivale strategico” non è né Vladimir Putin, presidente russo, né Xi Jinping, presidente cinese, “il rivale sistemico è Angela Merkel”, cancelliera tedesca. Si potrebbe allora pensare che, nel mondo capovolto, la Merkel diventi il perno europeo, oneri e onori, come si dice. Ma non è nemmeno così, perché poi si sa che l’Europa ha voci, istinti, storie diverse, e pure istituzioni proprie, per cui succede che un giorno, per dire, la Merkel annulla un vertice con i cinesi e il giorno dopo il capo della diplomazia europea rivede le definizioni di chi è amico e chi no. E’ andata proprio così. Così ci siamo messe a studiare qualche episodio geopolitico attuale, per capire se davvero l’Europa è in grado di cogliere il lato positivo – un proprio rafforzamento – di questa stagione tragica del trumpismo. Cominciamo con il “man on the news” di questa settimana, Josep Borrell, spagnolo, 73 anni, socialista, Alto rappresentante per la Politica estera e la sicurezza dell’Ue. Per tracciarne un ritratto politico – è il volto dell’Europa nel mondo – abbiamo chiesto a David Carretta, il nostro uomo a Bruxelles.

  

Borrell vs Pechino /1

Borrell rivede la posizione europea con Pechino in tre minuti, ma poi scrive di hard power. L’assenza su molti dossier

A Borrell sono bastati due minuti mercoledì – scrive David Carretta – per smontare l’unica dottrina strategica che l’Ue era riuscita a darsi nei confronti della Cina: la definizione di “rivale strategico” per Pechino, adottata solo un anno fa, non è quella che pensavano tutti. “Abbiamo parlato a lungo di questo”, ha detto Borrell dopo tre ore di discussioni con il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. “Le parole contano. E a volte contano molto. Sono sicuro che questa importante comunicazione sulla Cina dello scorso anno ha avuto rilevanza per queste due parole: ‘rivale sistemico’ e il loro significato. La parola ‘rivale’ nel linguaggio diplomatico è qualcosa di importante, perché non è una parola soft”, ha spiegato Borrell. Ma cosa vuol dire sistemico? “E’ una questione di rivalità tra sistemi o è una rivalità sistemica? Ci sono due interpretazioni”, ha spiegato Borrell. “Sistemi? Quali tipi di sistemi? E’ chiaro che non abbiamo gli stessi sistemi politici. E’ chiaro che la Cina difende il suo sistema politico e noi difendiamo il nostro. E’ chiaro che la Cina ha un’ambizione globale, ma allo stesso tempo non penso che la Cina giochi un ruolo che può minacciare la pace mondiale. Ha ribadito che vuole essere presente nel mondo, giocare un ruolo nel mondo, ma non ha ambizioni militari e non vuole usare la forza per partecipare a conflitti militari”, ha detto Borrell. Insomma: “Cosa significa rivalità? Andiamo oltre questa parola”. Per Borrell, “ci sono differenze di interessi e valori. Questo è un fatto della vita. E’ anche un fatto della vita che dobbiamo cooperare perché non si può immaginare la sfida del clima senza una forte cooperazione con la Cina. Non si può costruire un mondo multilaterale senza che la Cina partecipi”.

Borrell vs Breton /2

Le parole dell’Alto rappresentante potrebbero apparire schizofreniche se paragonate a quanto lo stesso Borrell ha scritto ieri in un editoriale pubblicato da diversi giornali europei e co-firmato dal commissario al Mercato interno, Thierry Breton. La crisi del cornavirus pone “la questione centrale della nostra autonomia, della nostra sovranità e della nostra posizione di attore della geopolitica mondiale, in particolare di fronte alle crescenti tensioni tra America e Cina. L’era dell’Europa conciliante, quando non è naif, è finita”, hanno scritto Breton e Borrell. “Il soft power virtuoso non basta più nel mondo di oggi. Bisogna aggiungere una dimensione di hard power che non si riduca alla sola dimensione militare”. L’Ue deve essere “capace di utilizzare le sue leve di influenza per far rispettare la sua visione del mondo e i suoi interessi”. La penna di Breton sembra aver prevalso sulla dottrina Borrell. Il commissario francese sostiene da tempo la necessità di riconquistare la sovranità industriale e tecnologica europea di fronte alla Cina. La Commissione sta lavorando a nuovi strumenti per bloccare gli investimenti cinesi in settori strategici e a regole della concorrenza che ostacolino le imprese cinesi sostenute dallo stato. L’Ue conciliante non ha portato i frutti sperati. La Cina non ha fatto quel che aveva promesso in termini di reciprocità di accesso al mercato e agli investimenti. Anzi, ha continuato a espandere la sua influenza nell’Ue con il format “16+1” a est, la nuova via della Seta a sud e la colonizzazione politica ed economica di Grecia, Malta e Cipro. L’aggressività della diplomazia di Pechino sul Covid-19 e le campagne di disinformazione cinesi nell’Ue hanno fatto scattare diversi campanelli d’allarme. L’imposizione della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong è stata il passo di troppo. Angela Merkel ha cancellato il summit Ue-Cina con Xi Jinping previsto a settembre a Lipsia, che doveva essere il momento più importante della presidenza tedesca dell’Ue. Il fuori-sincrono di Borrell sulla Cina si spiega in parte con la zizzania tra i 27 che la Cina è riuscita a seminare a colpi di contratti e minacce. Ma c’è anche una forte componente personale.

  

Borrell vs Borrell /3

Borrell fa parte della vecchia generazione di socialisti che vedono la politica estera come una cucina di alta realpolitik con salsa di retropensiero anti occidentale e anti liberale. Tony Blair non aveva capito nulla sul Kosovo e ancor meno sull’Iraq. I diritti umani sono roba da ragazzini con cartelloni per strada. La democrazia a Hong Kong e altrove la promuovono i destrorsi. Le sanzioni si impongono ai deboli, mica ai regimi forti, che invece vengono sempre guardati con una certa ammirazione, attraverso il prisma della complessità delle relazioni diplomatiche. L’hard power è una cosa del passato e la soluzione è sempre politica. Borrell risponde con superiorità agli europarlamentari e ai giornalisti che gli fanno domande sulle malefatte di Cina, Russia, Iran, Venezuela, Cuba. Ma i risultati del Servizio europeo di azione esterna guidato da Borrell? Il suo spazio d’azione diplomatica si riduce sempre più. L’Ue si è autoesclusa da medio oriente e Siria da tempo. L’Ue è garante dell’accordo sul nucleare con l’Iran, ma Teheran ha appena bloccato l’accesso a due siti. La Russia è stata subappaltata dall’Ue al format Normandia (Germania e Francia). La Libia è diventato un affare di Turchia e Russia. Le relazioni con gli Stati Uniti vengono gestite direttamente dalla Commissione perché ridotte a una questione di dazi, almeno fino alle elezioni presidenziali del 3 novembre. Forse sta lì la soluzione per far diventare l’Ue “geopolitica”: abolire il Servizio europeo di azione esterna di Borrell e riportare la politica estera dentro la Commissione, in modo che possa usare tutte le leve – economiche, commerciali e regolatorie – per permettere all’Ue di essere un vero attore globale.

 

Le truppe di Trump in Germania

Nessuno, né in Germania né in America, è stato avvisato del ritiro dei soldati da parte di Trump. E se rieletto si ritirasse dalla Nato?

A proposito di America e dell’angoscia con cui si aspetta il 3 novembre prossimo, l’Amministrazione Trump ha deciso di ritirare 9.500 soldati di stanza in Germania nei prossimi tre mesi e di mettere un tetto massimo al numero di soldati presenti sul territorio tedesco (25 mila, ora ce ne sono 35 mila) dopo che la Merkel aveva rifiutato l’invito ad andare a Camp David per il G7. Non c’è stata né una notifica né una spiegazione. Anzi, non c’è nemmeno la certezza, come ha detto il ministro della Difesa, Annegret Kramp-Karrenbauer: “Non c’è alcuna conferma ufficiale”. Trump non ha nemmeno avvisato la Nato: si tratta di un’altra azione unilaterale del presidente americano rispetto alle istituzioni e ai trattati sovranazionali, e in questo caso anche molto simile al ritiro (sciagurato) dal nord della Siria. Pure in America nessuno sapeva nulla: non sono rimbambiti gli europei. Il Pentagono non ha avvisato nessuno – l’ex comandante delle forze americane in Europa, Ben Hodges, ha detto riferendosi al ritiro: “Che errore colossale” – nemmeno il presidente della commissione Forze armate del Senato, il repubblicano dell’Oklahoma James Inhofe. Il quale ha detto a Politico che questa è un’idea talmente orrenda che non può essere di Trump, “che nutre un amore genuino nei confronti dei soldati”, dev’essere stato Robert O’Brien, il consigliere per la Sicurezza nazionale, “così mi hanno detto”. In Europa invece si dice che il ritiro è stato orchestrato dall’ex ambasciatore in Germania di Trump, Richard Grenell, appena rientrato a casa per guidare la National Intelligence degli Stati Uniti. Sarebbe stato un regalo d’addio, insomma: non per i tedeschi, ovviamente, con cui le cose non sono andate mai bene. Un regalo per i russi, i primi a festeggiare una minore presenza di soldati della Nato in Germania. E ci sono conseguenze anche strategiche per l’America: come dice una fonte della Nato, la disposizione delle truppe americane nei paesi alleati è fatta in modo da prevenire guerre che altrimenti poi gli stessi americani devono combattere. Ma per Trump è sempre tutto o un dispetto o un approfittarsi. “Ogni cosa riguarda lui, non c’è una visione del mondo, non c’è politica, c’è solo lui, lui con il suo bisogno di essere approvato e con il suo bisogno di vendetta”, ha detto Norbert Röttinger, che è tra i candidati alla successione di Merkel. E mentre molti studiosi tedeschi fanno l’elenco di quel che Trump può fare da qui alle elezioni o appena sarà eletto – sapete cosa c’è al primo posto delle paure? Che Trump esca dalla Nato – l’amico strategico e indispensabile diventa solo inaffidabile.

  

Un europeo a Ginevra

Bisogna decidere, c’è tempo fino all’8 luglio, chi mandare a capo della Wto, l’Organizzazione mondiale per il commercio, visto che Roberto Avezedo ha rassegnato le sue dimissioni e conserverà il suo ruolo fino ad agosto. Per gli europei potrebbe esserci un ruolo e infatti sono tutti d’accordo nel presentare una candidatura unita, che dovrà superare molti ostacoli, ma intanto è un messaggio, anzi due. Indica che l’Ue si esprimerà, in questo, con una voce sola, e che è pronta a giocare la sua partita da terzo polo, alternativo a Stati Uniti e Cina, all’interno della Wto. Per ora i nomi che circolano sono due, uno è un po’ più forte dell’altro. Phil Hogan, attuale commissario europeo al Commercio, e Arancha González, ministro degli Esteri in Spagna, sono i nomi usciti dalla videoconferenza tra europei di martedì. L’irlandese ha qualche possibilità in più, non tanto per una questione di meriti. Dice Politico che Hogan coltivasse da tempo l’idea di arrivare a Ginevra ma non pensava che Avezedo si sarebbe ritirato prima del tempo quindi è stato colto un po’ di sorpresa, ma questo non ha spostato la sua determinazione. Il vantaggio dell’irlandese è soprattutto una questione di incroci.

Mario Centeno non sarà più presidente dell’Eurogruppo

È il momento di trovare un nuovo presidente per l’Eurogruppo. E la domanda è: sarà modello Centeno o modello Dijsselbloem?

Il portoghese ha annunciato le sue dimissioni da ministro delle Finanze, andrà probabilmente a dirigere la Banca centrale di Lisbona, lascia l’Eurogruppo e forse potrebbe essere sostituito dalla spagnola Nadia Calviño. La soluzione non piace molto ai nordici, ma solleva dubbi in generale: c’è già uno spagnolo con un portafoglio fortissimo, è l’Alto commissario Borrell, ne vogliamo un altro? Sono arrivati altri nomi: l’irlandese Paschal Donohoe e il lussemburghese Pierre Gramegna. Il fatto che si insista molto sul nome della Calviño, toglie possibilità ad Arancha González, che pure di esperienza nella Wto ne ha molta: ha affiancato il predecessore di Avezedo per molti anni. Ma al di là delle ambizioni europee, esistono poi le resistenze degli altri membri e l’Organizzazione mondiale del commercio di membri ne ha 164. L’idea di mettersi in mezzo, o di proporsi come terzo polo, è importante, ma non è detto che Stati Uniti e Cina lasceranno che accada, tanto più che l’Ue potrebbe applicare dei dazi su alcuni prodotti americani per la questione degli aiuti a Boeing, e Trump le sue vendette le consuma caldissime: potrebbe agire subito. Poi ci sono i paesi in via di sviluppo che vogliono la direzione per loro. I paesi africani ci provano da febbraio a trovare un candidato, ma sono meno uniti degli europei, per il momento. Se Hogan se ne andasse, a Bruxelles ci sarebbero nomine da redistribuire e chissà che questo non possa aiutare a placare la tensione di questi mesi, magari con un rimpasto. Per ora ci si concentra sull’Eurogruppo, alla ricerca di un presidente. Centeno ha fatto il suo ruolo di mediazione, non è stato forte e determinante come i suoi predecessori e ha preferito fare da cerniera piuttosto che da peso. Dal nome del suo successore si capirà che ruolo vorrà affidare l’Ue alla presidenza dell’Eurogruppo: se vorrà un ritorno ai Dijsselbloem o se preferirà un nuovo Centeno.

Occhi negli occhi con gli autocrati

Forse dovremmo ribaltare tutte queste divisioni. Tutte queste proteste. dovremmo metterci da un’altra angolazione per osservare che tra tutte le nuance che compongono le nostre democrazie, c’è la nostra forza. E’ questo che Pechino e Mosca non hanno capito: quello che a loro sembra debolezza, le piazze piene, è quello che ci rende resistenti. Lo scrive Sylvie Kauffmann, editorialista del Monde, ex inviata nei paesi dell’est Europa e negli Stati Uniti. Hanno poco da gioire Russia Today o il Global Times, scrive la giornalista, hanno poco da rimproverarci i funzionari russi o cinesi quando vedono le strade pieni di manifesti e manifestanti, quando vedono i disordini, “non si rendono conto che ciò che percepiscono come una debolezza delle democrazie liberali, questa capacità di generare protesta e disordine, è in realtà la loro forza”. Non possono capirlo. L’occidente non sta dando l’immagine migliore di sé in questo momento, sì le fratture ci sono, sì è un momento incerto, ma queste proteste che dagli Stati Uniti si sono spostate in Europa sono un buon segnale e i destabilizzatori farebbero bene a pensarci, se davvero sono furbi. Nonostante la polarizzazione degli elettori sotto l’effetto della pressione populista, i valori che formano il fondamento delle democrazie occidentali rimangono un fondamento comune. “E’ in nome dell’uguaglianza e della libertà, valori ereditati dall’Illuminismo e dalle rivoluzioni americana e francese, che i manifestanti contro il razzismo e contro la violenza della polizia sono riusciti a portare con sé coloro che non sono direttamente vittime, comprese le élite del Pentagono”. Certo, dice la Kauffmann, c’è una componente distruttiva in tutto quello che sta succedendo, certo ci sono immagini di violenze, ma i regimi vedono solo questo. Il resto, i valori delle proteste, non li capiscono. Come non vedono che l’arrivo di questi movimenti in Europa è la prova che l’America First di Trump non ha vinto, che l’unione che loro tanto vorrebbero fare a pezzetti c’è ancora. L’occidente, scrive Sylvie Kauffmann, non è in declino, basta vederlo ora come affronta le conseguenze di una pandemia e come guarda le sue ferite aperte senza temerle: “Né l’ascesa della Cina né le rivendicazioni della Russia hanno prodotto valori in grado di ispirare movimenti sociali di tale portata”.

 

Gli avari sono rimasti in tre

Ieri sulla prima pagina del quotidiano economico danese Børsen c’era un titolo che ha fatto tirare un sospiro di sollievo a molti europei: “Regeringen vil aendre kurs i Eu’s budgetkrig”, cioè il governo danese cambia campo nella guerra budgetaria europea, esce dal gruppo dei quattro frugali – con Austria, Olanda e Svezia – e passa con i solidali. Durante un’interrogazione in Parlamento, Mette Frederiksen, premier danese, ha detto: “Il nostro compito non è mettere il veto, ma trovare una soluzione (…) Dobbiamo restare uniti, e questo è il punto di partenza del governo per i negoziati”. Poi ha aggiunto: “Sono una grande sostenitrice della cooperazione in Europa, ma sono anche una frugale del nord e penso che sia giusto pagare i propri debiti da soli”. Però di fronte all’emergenza, si può trovare un equilibrio nuovo. Lo ha trovato la Merkel, ora si muove la Frederiksen e molti attendono speranzosi che il prossimo turno sia di Sebastian Kurz, l’austriaco.

  

A proposito di nord e di frugalità

I quattro frugali contro la solidarietà post pandemia restano in tre: la Danimarca ha deciso di impostare diversamente le trattative

Fino a poco tempo fa, gli olandesi che abitavano nel centro di Amsterdam mettevano sulle finestre un cartello con scritto: “Io vivo qui”. Era l’urlo disperato degli abitanti contro i turisti che hanno reso il centro della città olandese un susseguirsi di negozi di cannabis, di formaggi, di bulbi di tulipani, di souvenir e di bordelli. Ora che la pandemia si è portata via i diciannove milioni di turisti l’anno – e i 6,8 miliardi di euro di entrate che producevano – Amsterdam ripensa il suo centro. Femke Halsema, primo sindaco donna della città dal 2018 (prima di entrare in politica con la Sinistra verde era una criminologa, e canta anche molto bene come si vede nel film “The Lie”, diretto da suo marito), ha preparato un piano per riprendersi lo spazio del centro della città, con licenze commerciali nuove e aiuti per acquistare casa. Grandi gruppi aziendali stanno acquistando uffici nuovi in centro, ma la città è divisa a metà: c’è chi dice che non è possibile riprendersi Amsterdam e chi invece dice che mai come ora la riconquista è possibile. Il nostro preferito è un pensionato di 85 anni che a Bloomberg ha detto: “Canne e prostitute nelle vetrine sono parte di Amsterdam: just live with it”. Il pensionato olandese ci ha fatto pensare a quel che sta accadendo con le statue nei centri delle città europee, il regolamento di conti con la storia filmato dagli smartphone, gli occhi di oggi – la morale di oggi – sui fatti di ieri. Mentre ci rimbomba nella testa “just live with it”, abbiamo scelto la nostra statua preferita. E’ una miniatura anzi, perché sulla collocazione di una statua ci sono state polemiche enormi. E’ a Växjö, in Svezia, e raffigura Danuta Danielsson, famosa come “la donna con la borsetta”. Il 13 aprile del 1985, Danuta, che era di origine polacca, aveva meno di 40 anni e aveva una madre sopravvissuta ai campi di concentramento, tirò una borsettata a un ragazzo che partecipava a una manifestazione neonazista. Si chiamava Seppo Seluska: qualche anno dopo è stato condannato per aver torturato e ucciso un ebreo omosessuale. La foto della borsettata è diventata molto famosa, Danuta è ricordata con molto affetto, le polemiche sul suo “atto violento” (la borsettata!) hanno tenuto banco sui giornali della città per molto tempo. Ma visto che certi simboli sopravvivono a tutte le furie e ai divieti, oggi su molte statue di Växjö è stata appesa una borsetta – just live with it.

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