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In iran
Gli iraniani si guardano le spalle, il regime ora non farà sconti
Teheran è ancora semivuota, ma per le strade sono ricomparse le macchine, e i caffè hanno ricominciato a battere gli scontrini. I controlli, invece sono rimasti onnipresenti, per cui si gira nervosi: il governo non sarà disposto a cedere nulla dentro ai suoi confini
In un tripudio di cori e stendardi svolazzanti, martedì pomeriggio a Teheran è andata in scena la parata della “vittoria divina”. C’erano le “mogli dei martiri” ingolfate dentro chador che facevano molto anni ’80, avanzavano come allora, con un lembo del tessuto tra le labbra per lasciare le mani libere di marcare il tempo delle parole d’ordine. C’erano i bassiji con gli occhi lucidi di stanchezza e i pasdaran in sedia a rotelle, spinti da commilitoni che si battevano il petto, quasi che fosse già arrivato il giorno dell’Ashura. E a un certo punto, a sorpresa, in mezzo alla folla, in piazza della Rivoluzione si è palesato pure Esmail Qaani, il comandante della forza al Quds, dato per morto dopo l’attacco israeliano del 13 giugno. Intanto sulle bandiere che ondeggiavano contro il cielo azzurrissimo della capitale iraniana si leggevano slogan come “no alla pace imposta, sì alla pace duratura” e “l’unità e la fede conducono al trionfo”. Ma siccome gli anni ’80 sono ormai lontani e la prevedibile iconografia khomeinista non riesce più a scaldare gli animi degli insider, nella marea ondeggiante di volti, braccia e cartelli della piazza si notavano in gran spolvero le immagini di Arash, l’eroico arciere della mitologia persiana che secondo la tradizione rischiò la vita per scoccare la freccia che riportò la pace tra l’Iran e il regno di Turan. Il che in un gioco di rimandi un po’ rozzo ma di facile lettura stava a significare: ancora una volta siamo stati noi gli adulti nella stanza, gli unici dotati di autocontrollo, noi che da soli abbiamo affrontato due nemici, da soli abbiamo resistito, da soli proprio come Arash, abbiamo “imposto” la pace. Sì, è uno schema un po’ ardito persino per gli apparatchik di regime, ma funziona così la propaganda della Repubblica islamica di questi tempi, e pazienza se i bassiji arrabbiati, che ad altre latitudini diventerebbero hooligan, inneggiano alla vendetta e irridono la logica della “pazienza eroica” di Khamenei.
L’altra Teheran nel frattempo è tornata a respirare e non fa troppo caso alle pantomime del regime. La città è ancora semivuota, ma per le strade sono ricomparse le macchine, e i caffè che in segno di solidarietà offrivano caffè ai clienti abituali hanno ricominciato a battere gli scontrini. I controlli, invece sono rimasti onnipresenti, per cui si gira nervosi, consapevoli che è necessario guardarsi le spalle, che persa le reputazione agli occhi del mondo là fuori, il regime non sarà disposto a cedere nulla dentro ai suoi confini. Tanto più che con il mese di Muharram alle porte, il governo potrà agire con maggiore severità, e agitare i manganelli contro i giovani e le mal velate incapaci di rispettare la sacralità della ricorrenza.
“Le guerre tendono a rafforzare i regimi rivoluzionari più giovani, ma le umiliazioni militari tendono ad esporre la fragilità di quelli più vecchi”, ha scritto l’analista del Carnagie Endowment, Karim Sadjadpour, sul New York Times. In Iran la fragilità della Repubblica islamica non è mai stata più evidente e mentre la comunità internazionale si interroga sulla letalità degli attacchi alle infrastrutture nucleari e sul destino dell’uranio arricchito di Khamenei, a Teheran i lealisti del sistema serrano i ranghi pronti a esercitare tutta la forza necessaria per assicurarsi la sopravvivenza contro i nemici interni.
Non sorprende quindi che una nuova ondata di arresti sia già stata lanciata. Tra i primi bersagli cittadini di origine afghana o di religione bahai come Arman Nikaien, prelevato da agenti del comando pasdaran di Shiraz mentre visitava la famiglia della moglie; artisti come Mohammad Reza Ehsanifard, rapper ventottenne, conosciuto con il nome d’arte Khaleg, o dissidenti come Kianoush Cheraghi e Hossein Ronaghi, che alcuni giorni fa aveva scritto: “In tempo di guerra tutti i prigionieri politici e i prigionieri di coscienza devono essere rilasciati. La Repubblica islamica è responsabile per qualsiasi cosa accada ai detenuti”.