Foto LaPresse

Il racconto

Le scelte di chi resta, ha sfidato il regime e chiede: riconoscete il valore della nostra vita a Teheran

Tatiana Boutourline

Ramin ha le chiavi della macchina in tasca, uno zainetto di emergenza poggiato sulla porta, ma non lascia la capitale. Il bombardamento vicino casa, la distruzione dalla finestra, la spaccatura con la diaspora

Quando tremavano i vetri, al tempo della cosiddetta “guerra delle città”, la madre di Ramin, in qualunque parte della casa si trovasse, correva a coprirgli le orecchie. Non gli spiegava cosa stesse accadendo, lo stringeva e basta, perché parlare di Saddam e dei suoi missili sarebbe stato un discorso da grandi e non usava rassicurare i bambini con le parole negli anni 80, almeno non nella sua famiglia. “E’ quello che è”, lo fulminava il padre quando lo assillava di domande, lui non capiva perché si irritasse ogni volta e così tanto, ciò che sapeva però era che la conversazione si sarebbe chiusa seduta stante. Ma quella era un’altra epoca e la loro una schiatta molto diversa di genitori e di figli, puntualizza Ramin, al telefono con la cugina. Se ne sta da solo, affacciato alla finestra di un appartamento al diciottesimo piano di uno dei tanti palazzi moderatamente sgraziati del terzo distretto di Teheran

 

       

 

Il terzo distretto è noto alle cronache recenti perché oltre agli uffici e agli alberghi, oltre all’amatissimo parco Mellat e al centro sportivo Enghelab, ospita anche una delle più importanti basi dei pasdaran, nonché la sede della televisione di stato Irib. “Sono proprio nel bel mezzo dell’azione”, commenta sarcastico Ramin, quando la cugina, che vive in Europa, gli chiede di inquadrare quello che vede,  il telefono stringe verso una prima e  una seconda colonna di fumo, a metà strada circa tra il suo appartamento e le montagne. Questo succedeva il 14 giugno, gli ex intoccabili della nomenklatura khameneista avevano già iniziato a cadere come birilli e Ramin era ancora capace di sorridere, di dire che, per festeggiare a dovere, sarebbe stato il caso di ricominciare a fumare.

Ma a una settimana di distanza,  sotto lo stesso cielo d’un azzurro impietoso, negli stessi viali fiancheggiati dai platani, sembra trascorsa un’èra geologica. Con l’intensificarsi dei bombardamenti, la vita a Teheran pare essersi smaterializzata. Di pari passo all’esodo delle persone, i negozi hanno iniziato a tirare giù le serrande e le banche a  smettere di erogare contanti. E chi è rimasto nel quartiere di Ramin deve pure fare a meno dell’acqua corrente, visto che le condutture sono state danneggiate nel corso di un attacco a piazza Tajrish e che le autorità non sono ancora state in grado di stabilire quando il servizio potrà essere ripristinato. Ramin ha imparato a farsi bastare due o tre litri d’acqua al giorno per lavarsi, ma insieme alla benzina, all’olio e al riso, inizia a essere introvabile anche l’acqua minerale e sui pochi esercizi rimasti aperti sono affissi cartelli con su scritto: “AB NIST”, ossia niente acqua. 

Da giorni, i famigliari implorano Ramin di partire, di lasciarsi alle spalle le bombe per varcare il confine con l’Azerbaigian, la Turchia o l’Armenia, di unirsi almeno al serpentone di macchine che si muove, a passo di lumaca, in cerca di salvezza, verso il Caspio. Ma Ramin resta. Resta perché non vuole lasciar sola la fidanzata che ha due genitori anziani e malati, resta perché nel suo quartiere disastrato ha dei punti di riferimento, per esempio, il figlio di un benzinaio, compagno delle elementari, che gli ha promesso un pieno e un portinaio afghano, con dei baffi a manubrio, che senza chiedere nulla in cambio, gli ha procurato due casse d’acqua. Resta mentre il mondo gli si accartoccia intorno e insiste che si sente più sicuro così, con le chiavi della macchina infilate nella tasca dei pantaloni anche di notte e uno zaino per le emergenze appoggiato vicino alla porta. Resta e dice: “Chissà quanti e quali sono gli obiettivi degli israeliani, chi può dire che non colpiranno più a nord”. Ramin resta con la convinzione che gli attacchi chirurgici non esistano e che sia un attimo trasformarsi in un danno collaterale. 

Epperò, di pari passo alla paura, cresce anche una senso doloroso di impotenza. E’ un sentimento comune a molti iraniani che si sentono schiacciati fra una teocrazia che a ogni tornante della storia li ha traditi e una comunità internazionale che, fatta salva la retorica, li ignora. 

Accade pure che una quota di risentimento investa anche quanti nella diaspora persiana sono stati fin troppo facili all’entusiasmo alla vista delle prime bombe su Teheran. Perché se è vero che le rivoluzioni sono spesso determinate da improvvise accelerazioni, è vero pure che i Ramin d’Iran hanno già pagato un prezzo per mandare in frantumi la lente disumanizzante dentro cui li ha incorniciati il regime. Attraverso le sterili alternanze di falchi e di colombe hanno votato i meno peggio e contestato la regolarità delle elezioni, hanno onorato le tombe dei dissidenti, spalleggiato ragazze mal velate, manifestato nelle piazze e dentro alle università, hanno affrontato la furia dei manganelli, gli spari negli occhi, le umiliazioni e gli arresti. Lo hanno fatto da soli, ragazzi e ragazze, senza risparmiarsi, e non riescono a credere che adesso, sotto una pioggia di bombe, con i bassiji che improvvisano checkpoint agli incroci, venga preteso che si immolino di nuovo e che questa aspettativa provenga da connazionali che, al contrario loro, non rischiano niente, discettano di democrazia e di battaglie che non hanno mai combattuto sul campo, rimpiangono le palle stroboscopiche del K Club, ma ormai hanno casa a Los Angeles, Parigi o Londra e, come tuona Ramin sfogandosi con la cugina: “Per l’Iran non hanno mai piantato un albero”. 

Sono parole difficili da pronunciare ad alta voce, perché il delicato equilibrio tra chi fugge e chi resta poggia su fondamenta fragili. Poiché pur con tutti gli orrori del regime, i Ramin d’Iran si sono creati delle vite, con appartamenti, giardini, amicizie, amori e caffè agli angoli delle strade, esistenze che da un momento all’altro rischiano di saltare per aria e non è innaturale che desiderino che a queste vite faticose e imperfette venga riconosciuto un valore, e che nel tempo dell’incertezza e della paura, ci sia pure qualcuno che con un moto di insofferenza sbotti: “E’ quello che è”.
 

Di più su questi argomenti: