i negoziati

La truffa del “nì” di Putin

Micol Flammini

Vorrei, ma non posso, ha detto il capo del Cremlino nel rifiutare il cessate il fuoco di trenta giorni con Kyiv. La scusa del fronte, le “sfumature”, il baratto sul Kursk, i ringraziamenti a Trump

Interrogato sulla possibilità di ratificare il cessate il fuoco di trenta giorni, come proposto dagli Stati Uniti e già accettato dagli ucraini, Vladimir Putin si è lanciato in un giro di parole fumoso per poi atterrare sulla risposta: “No”. Il capo del Cremlino ha detto: “Siamo a favore, ma ci sono delle sfumature”. E poi ancora: “Siamo d’accordo con le proposte per porre fine alle ostilità, ma devono essere tali da portare a una pace duratura ed eliminare le cause iniziali del conflitto”. Nelle sfumature Putin ha posto il suo rifiuto del cessate il fuoco, ma è stato ben attento a non dire apertamente che lo stava rifiutando. Il capo del Cremlino  ha preso tempo, ha allungato la trattativa, mentre da Washington, il presidente americano Donald Trump, seduto in conferenza stampa con il segretario generale della Nato Mark Rutte, definiva le dichiarazioni arrivate  da Mosca  “promettenti” e minacciava che se la Russia non avesse accettato la tregua allora avrebbe conosciuto la potenza di nuove sanzioni americane.

 

Putin per ora non si mostra intimidito, pensa di conoscere  Trump e, prima di inerpicarsi nel suo rifiuto, ha voluto ringraziare il presidente americano per l’impegno per la pace. Lo ha lusingato prima di dirgli “no”, o meglio, prima di lasciarlo appeso a un “non ancora”. Non era tanto alla guerra che pensava mentre cercava il modo di non indispettire troppo il presidente americano, ma aveva cura di non turbare la rinascita delle relazioni tra Stati Uniti e Russia e infatti ha parlato della possibilità di raggiungere un nuovo accordo con Washington che riapra i gasdotti verso l’Europa. Finora le cose sono andate secondo il copione del capo del Cremlino, che vuole avere l’ultima parola nei negoziati e rimandare alla Casa Bianca le sue correzioni al cessate il fuoco. Durante la conferenza stampa che si è svolta al fianco del dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenka e prima dell’incontro con Steve Witkoff, mandato da Trump dall’Arabia Saudita in  Russia per riferire delle conclusioni del vertice con gli ucraini, Putin ha detto che per accettare la proposta di cessate il fuoco vuole delle rassicurazioni sul fatto che Kyiv non utilizzi i trenta giorni per portare avanti “la mobilitazione forzata”, per armare il fronte e per portare via i soldati che hanno combattuto nella regione russa di Kursk e che adesso si  stanno ritirando “a gruppi di due o di tre, ma presto per loro non sarà più possibile andare via”, ha detto il presidente russo aggiungendo che i soldati rimasti nel Kursk dovranno affrontare una scelta: o la morte o la resa. L’oblast di Kursk è parte del baratto, gli ucraini hanno iniziato a invaderla ad agosto,  hanno tenuto il territorio per sette mesi e adesso Putin vuole usarla come scusa: fino a quando non avremo ripreso Kursk, non possiamo accettare il cessate il fuoco. Mercoledì in una straordinaria uscita in mimetica, tenuta che il capo del Cremlino ha indossato di rado, si è recato nella regione, ha visitato i soldati, ha stretto la mano al capo di stato maggiore Valeri Gerasimov, e si sentiva talmente sicuro da aver voluto anteporre il suo spettacolo all’arrivo degli emissari americani diretti a Mosca per avere una sua risposta sul cessate il fuoco. Vorrei ma non posso, non adesso, non è sicuro: sono state queste le risposte di Putin che comunque ha biosgno  di  una tregua. Putin non negozia con gli ucraini, parla direttamente all’Amministrazione americana. L’ha sempre fatto, ma non gli era mai capitato di avere un presidente alla Casa Bianca che facesse altrettanto in modo così smaccato. Putin ha detto che c’è bisogno di un sistema di controllo lungo il fronte per fermare  gli ucraini. Anche Kyiv vuole  garanzie, ma Putin non ha nessuna intenzione di essere controllato. Fra i timori di Kyiv c’è la possibilità che Mosca chieda agli Stati Uniti di congelare gli aiuti durante il cessate il fuoco. Tra le certezze c’è invece la consapevolezza che il capo del Cremlino dal 2022 continua a pretendere  le stesse condizioni per finire il conflitto: annessione delle regioni ucraine  in cui ha tenuto il referendum illegittimo, demilitarizzazione dell’Ucraina, nessun futuro accesso per Kyiv nella Nato. Putin è stato  attento a non mostrarsi come il vero ostacolo alla pace. Ha lasciato la porta socchiusa, ben cosciente che, fin dal 2022, per far finire il conflitto è sufficiente che lui dica basta. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)