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Il colloquio

La riconsegna straziante dei corpi degli ostaggi. Come si delinea la fase due dell'accordo

Fiammetta Martegani

A Gaza il 65 per cento degli edifici pubblici e privati è inagibile, e affidare la ricostruzione agli alleati del Golfo è l'unico modo per assicurarsi che i soldi non finiscano nelle mani di Hamas. Intervista a Kobi Michael, ex capo dell’ufficio palestinese presso il ministero degli Affari strategici

Tel Aviv. Israele attende il drammatico arrivo dei corpi di quattro ostaggi – tra cui, stando alle dichiarazioni di Hamas, Shiri Bibas con in piccoli Ariel e Kfir – e intanto cerca di guardare avanti, verso la seconda fase degli accordi, guidata dall’inviato speciale degli Stati Uniti in medio oriente, Steve Witkoff, che lunedì era al Cairo per portare avanti la conclusione della prima fase.

Kobi Michael, ricercatore senior presso l’Institute for National Security Studies, ex capo dell’ufficio palestinese presso il ministero degli Affari strategici, dice al Foglio: “Quella proposta da Donald Trump è una combinazione tra strategia negoziale e una visione di lungo periodo, che non è solo circoscritta alla Striscia di Gaza ma di portata al tempo stesso sia regionale sia globale. Dopo trent’anni in cui la partita a scacchi è rimasta bloccata agli Accordi di Oslo, il presidente americano non ha solo deciso di cambiare le carte in tavola, ma anche il gioco: proponendo il Monopoli, per trasformare questa regione in un nuovo proxy americano, ma senza dover necessariamente coinvolgere i marine, se non come watchdog. Questo perché il medio oriente è, anche dal punto di vista geografico, il primo fronte che il presidente Trump è intenzionato a chiudere, prima di dover fronteggiare la Russia e, soprattutto, la ben più temuta Cina. Ragione per cui ottenere il Nobel per la Pace risulta ora conditio sine qua non per legittimare le sue future mosse di politica internazionale”.

Secondo Michael, la gestione del dopoguerra a Gaza rappresenterebbe una specie di pilot su cui implementare il resto della sua strategia, offrendo un nuovo paradigma “post Oslo”, volto a responsabilizzare tutti i paesi arabi che per decenni si sono candidati come mediatori “senza, tuttavia, mai assumersi la responsabilità della questione palestinese che, di fatto, è stata creata proprio da loro, poiché sia l’Egitto sia la Giordania hanno controllato la Striscia e la Cisgiordania per 19 anni, dal 1948 al 1967, senza aver mai voluto integrare i palestinesi all’interno del proprio stato, pur se per ragionevoli questioni di sicurezza, delegando tutta la gestione della sicurezza a Israele”.

Michael sottolinea che le negoziazioni al Cairo sono cominciate ben prima che venisse inaugurata la presidenza di Trump alla Casa Bianca, e che la sua audace proposta di una “riviera del medio oriente” sia è architettata molto prima dell’incontro ufficiale con il premier Benjamin Netanyahu: “La proposta, spiazzante, è stata fatta proprio per coinvolgere le parti in causa dirette in modo che si trovino costrette a offrire una controproposta per risolvere, una volta per tutte, la questione palestinese, da loro stessi creata ormai 77 anni fa”.

 

                

 

Alla domanda su come, dal punto di vista pratico, possa essere gestita la situazione sul piano umanitario, Michael ricorda che, stando ai sondaggi precedenti al 7 ottobre, già allora il 40 per cento della popolazione di Gaza sosteneva di essere interessata a lasciare la Striscia in cerca di migliori opportunità lavorative in paesi dove poter effettuare un ricongiungimento famigliare.

A ciò si aggiunge il problema che oggi circa il 65 per cento degli edifici pubblici e privati è inagibile: per poter essere ricostruiti saranno necessari almeno una decina di anni, nel corso dei quali tutti coloro che decideranno, spontaneamente, di lasciare le loro case, avranno la possibilità o di ricostruirsi una vita all’estero, o di tornare a vivere in un paese molto migliore di quello che hanno lasciato dove, una volta rientrati, ci saranno concrete possibilità lavorative, basate su un’economia reale, fondata su turismo e investimenti, e non dipendente dagli stipendi sporadicamente elargiti da Hamas: “Perché ciò avvenga sarà necessario che Egitto e Giordania lascino accesso libero ai palestinesi nei loro paesi, anche solo per poter poi espatriare altrove. Un’altra soluzione temporanea potrebbe essere la limitrofa penisola del Sinai, la cui superficie è grande 167 volte quella della Striscia. Ma, soprattutto, affidare la ricostruzione agli alleati del Golfo, in particolar modo ad Arabia Saudita ed Emirati. Questo sarebbe l’unico modo per assicurarsi che i soldi investiti non finiscano più nelle mani di Hamas. Il che risulterebbe, di fatto, l’unico modo per delegittimare (e disarmare) il gruppo terrorista e, solo allora, portare avanti la soluzione a due stati come già delineato dagli Accordi di Abramo nel 2020”.