Dove arrivano i soldati dell'Ucraina a Kursk

Micol Flammini

La galoppata di Kyiv dentro al territorio russo ha già mostrato la penetrabilità di Mosca. I messaggi non sono soltanto per il Cremlino, ma anche per gli ucraini. Gli obiettivi e l'altra marcia di un anno fa

Sono tre giorni che l’esercito ucraino avanza nel territorio russo e per sei volte Mosca, mentre gli uomini di Kyiv si addentravano nella regione di Kursk, ha cantato vittoria. Quello che accade nella regione russa al confine dell’Ucraina è avvolto da una nebbia di informazioni piuttosto fitta. Sappiamo che Kyiv ha lanciato un’incursione insolita, che la Russia ha perso trecentocinquanta chilometri quadrati del suo territorio, che un blogger militare russo, Evgeni Poddubny, è stato ferito da un attacco di droni, sappiamo che ci sono vittime, prigionieri, e che Kyiv ha preso il controllo di Sudzha, dove si trova una stazione di transito del gas.  Gli obiettivi di un’azione tanto ardimentosa quanto rischiosa non sono  stati chiariti, ma si possono immaginare: distrarre l’esercito russo dalla linea del fronte, ledere con un effetto sorpresa l’idea velleitaria dell’intoccabilità del territorio russo. 


Ma ci sono anche obiettivi interni: mostrare agli ucraini che anche se l’esercito non è riuscito a recuperare la penisola della Crimea ha altre opzioni. Il capo del Cremlino, Vladimir Putin, ha gelato i suoi collaboratori che non sono riusciti a risolvere la situazione, alcuni alleati di Kyiv sono rimasti intirizziti di fronte alle informazioni che l’avanzata   stava avvenendo con armi occidentali (il tabù dell’utilizzo di armi non ucraine per colpire la Russia è definitivamente caduto anche in Ue). Sono  due le brigate impegnate nell’avanzata e stanno dimostrando che la Russia ha i piedi d’argilla, non sa difendersi, perde terreno, avanza in un territorio altrui mentre non riesce a organizzare una pronta protezione del suo stesso confine. Tutto questo ha rimandato la memoria indietro, quando a luglio dello scorso anno il capo della Wagner, la compagnia di mercenari più celebre tra quelle al servizio del Cremlino, era partita al seguito del suo capo, Evgeni Prigozhin, da Bakhmut, la città ucraina sfinita dai combattimenti, e si era diretta prima a Rostov sul Don, nella regione di Rostov, a sud di Kursk, e poi aveva cercato di proseguire verso Mosca, ma si era fermata a diversi chilometri di distanza. Non aveva incontrato grande resistenza lungo il cammino, ma poi era tornata indietro: aveva l’obiettivo di far dimettere l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e il capo delle Forze armate Valeri Gerasimov, ma non aveva un piano. La marcia di Prigozhin si fermò da sola,  i mercenari tornarono indietro e Prigozhin morì un mese dopo. Gli ucraini stanno infliggendo un danno ben più grande, vogliono che la Russia senta la guerra e hanno agito in modo mirato per arrivare all’occupazione di un’intera regione. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha detto: “Mosca ci ha portato la guerra, ora deve sentirla”. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)