
Più Mbappé, meno Le Pen
L'Europa alla fine ce la fa. L'azzardo di Macron e la scommessa moderata di Starmer
Ieri Londra, oggi Parigi: frenate le tentazioni estremiste, con vista sull’Eurostar. Sul treno al confine dell’Europa, con il peso del nazionalismo sulla testa
I controlli di sicurezza alla stazione di St Pancras, dove parte l’Eurostar per Parigi, mi ricordano che la Brexit esiste: in questi giorni elettorali a Londra, con la valanga laburista che ha spazzato via il governo e il Partito conservatore, me l’ero quasi scordata. Così come pensavo che in Francia avrei trovato l’onda nera di cui parlavano tutti, e invece: è rossa anche lì. Avevo deciso di prendere il treno che passa sotto il canale della Manica, uno dei progetti-simbolo degli anni Novanta in cui tutto pareva possibile, per sentirmi sulla testa il peso di un divorzio malfunzionante, l’idiozia di ricreare un confine che non c’era più per proteggersi da un nemico immaginario – o dall’immigrazione, che è comunque aumentata. Per chi non vive nel Regno – e non fa il camionista, non riempie moduli doppi, risponde a domande doppie, accumula ritardo per attraversare questo canale – la Brexit è prettamente una questione di confini, una questione irrisolta, mezza applicata e mezza no, un ripensamento indicibile ma incastrato in ogni postilla dell’accordo di divorzio. Ed è anche una domanda che negli ultimi otto anni, sul continente, ci siamo fatti un po’ tutti: vale la pena? Vale la pena insistere con gli inglesi? Hanno deciso di isolarsi, si sono fidati di promesse fantasiose, hanno rinunciato all’ipotesi di ricontarsi in un nuovo referendum, vale la pena crucciarsi ancora? Nel tempo la risposta è diventata: no.
Sotto la Manica non funziona nulla, la Brexit non c’entra, ma un po’ sì, perché ha deformato rapporti che erano tutto sommato sereni e ha aperto la stagione delle possibilità nazionaliste. A Coquelles, la cittadina dell’Alta Francia in cui sbuca l’Eurostar, la sfida per il secondo turno delle elezioni legislative anticipate volute da Emmanuel Macron è tra un candidato del Rassemblement national e uno dei Républicains: al primo turno, il 30 giugno, il candidato macroniano era arrivato ultimo. Ma il secondo turno è tutta un’altra storia, lo spettro destra su destra, nella Francia dell’enorme mobilitazione, non era un destino inevitabile, Emmanuel Macron non è il piromane di cui tutti sparlano, il suo azzardo elettorale non era così una catastrofe e il Nuovo fronte popolare ha riscritto un pezzo di questa storia.
Keir Starmer ha vinto le elezioni britanniche con uno slogan facile – il cambiamento – e poco innovativo (evocativo forse, ma quindici anni fa), con un programma senza particolari guizzi né promesse né dettagli, con una strategia di cautela talmente esplicita che non soltanto ha un nome, la strategia del “vaso Ming”, ma si è trasformata in uno specchio dello stesso Starmer: uno che si muove con tanta circospezione non può essere coraggioso e rivoluzionario, non può essere un leader forte. Nella Londra pre elettorale, con i sondaggi che non oscillavano da mesi e davano un distacco costante del Labour di Starmer rispetto ai Tory, ho sentito dire soprattutto due cose: non c’è bisogno di proposte roboanti o di slogan immortali, l’inerzia elettorale spinge già lontano dal Partito conservatore al governo da quattordici anni, basta stare fermi; le campagne ideologiche, tutte proclami e niente cose concrete, hanno stufato gli inglesi. In queste conversazioni, la Brexit ogni tanto è saltata fuori, stranamente, ma non come un progetto andato male (questo è piuttosto banale) ma come la sconfitta di quel che il divorzio dall’Europa era all’origine: un’idea, una provocazione. Nel 2016, gli inglesi votarono su un’idea che, dicevano i sostenitori, avrebbe reso il Regno Unito di nuovo grande. Soltanto dopo siamo diventati tutti esperti, nostro malgrado, di regolamenti, dogane, acque territoriali, branchi di merluzzi e clausole come il backstop, ma allora e per parecchio tempo “Brexit means Brexit” è stata l’unica definizione fornita, e non voleva dire nulla. Era un’idea: fuori dall’Ue saremo più forti. Starmer ha scelto una campagna non ideologica perché la sbornia brexitara è finita, e gli inglesi sono stanchi delle proposte inverosimili.
Il confronto tra Francia e Regno Unito è una costante dei discorsi di quest’inizio estate di elezioni improvvise e azzardate. Rishi Sunak, ex premier conservatore, ha annunciato il voto del 4 luglio a fine maggio, in una giornata di pioggia che ricorderemo per sempre perché Sunak si presentò davanti alla porta di 10 Downing Street per la dichiarazione sbalorditiva (ci si aspettava un’elezione autunnale) senza ombrello – e nessuno gliene portò uno. Non che le aspettative riguardo a Sunak fossero alte, ma la giacca luccicante tanto era fradicia e il volto bagnato del premier sembrarono fatti apposta per farle precipitare. Tim Shipman del Sunday Times, il narratore più informato sul governo conservatore, autore di quattro libri sugli anni della Brexit, racconta che Sunak ha preso la decisione di anticipare le elezioni all’inizio dell’estate senza troppe consultazioni: chi rischiava di perdere il posto (e abbiamo visto che erano tanti) non gli ha detto che non c’era una strategia, non c’erano soldi, non c’erano speranze; i suoi consiglieri pensavano che la scelta fosse più coraggiosa che insensata, “gli inglesi amano chi sa prendersi dei rischi”, sottostimando in modo quasi cieco l’avversione e la delusione nei confronti dei conservatori. E commettendo altri errori: come il calcolo sbagliato su Nigel Farage, leader nazionalista di Reform Uk, che sembrava già mezzo trasferito negli Stati Uniti per sostenere la campagna elettorale di Donald Trump, e che invece ha cambiato idea, intuendo l’opportunità di schiantare i conservatori: si è candidato, è entrato ai Comuni per la prima volta dopo averci provato per otto tornate elettorali, ha conquistato più di quattro milioni di voti, che valgono soltanto cinque seggi, e ora può ripetere ossessivamente che il sistema (elettorale ma non solo) britannico è “rigged” – parola chiave del trumpismo – e procedere con il suo assalto populista. Già così, la scommessa di Sunak era perduta, poi è arrivato lo scandalo delle scommesse da parte di alcuni conservatori sulla data delle elezioni, l’errore di lasciare le celebrazioni degli ottant’anni dello sbarco in Normandia in anticipo concedendo spazi e foto a Keir Starmer come se fosse già premier, e poi buttarsi sulla retorica della paura: i laburisti costruiranno nel Regno Unito una dittatura socialista. Shipman indica anche una interpretazione che ha più a che fare con il carattere di un leader e con il messaggio che vuole mandare – non è una questione da poco in un paese che in otto anni ha cambiato cinque premier, tutti dello stesso partito. Se si chiede ai collaboratori più stretti di Sunak che cosa è andato storto, dice Shipman, molti ti diranno che è stato quello di non curare le fratture e le divisioni con Boris Johnson e con Liz Truss, i premier che lo hanno preceduto e i suoi rivali interni al partito: se lo avesse fatto, avrebbe potuto mettere fine allo psicodramma dell’estate del 2022, quando è stato estromesso precipitosamente Johnson (il pentimento dei Tory è iniziato il secondo dopo i suoi saluti) e quando è stata nominata sciaguratamente Truss. La realtà è più complicata, dice Shipman, perché Sunak era convinto che il suo approccio serio, concreto, razionale, più da tecnico che da politico, avrebbe avuto la meglio non soltanto sull’opposizione, ma anche sul modello dei suoi predecessori. Sunak pensa che “il gioco politico sia stupido”, e che una guida responsabile possa superarlo. Quando al penultimo giorno di campagna elettorale è infine stato reclutato l’ex premier Boris Johnson, che è il regista della grande vittoria conservatrice del 2019 (solo cinque anni fa) e il più popolare tra i leader dei Tory, era troppo tardi ed era tutto troppo poco autentico. Nella breve conversazione intercorsa tra Sunak e Johnson, che non si sopportano, quest’ultimo ha detto: sarà un disastro.
L’annuncio di Emmanuel Macron sulle legislative anticipate dopo il grande successo dei lepenisti del Rassemblement national alle europee di inizio giugno è stato affiancato, nel suo azzardo, a quello di Rishi Sunak. A Parigi le conversazioni alla vigilia del secondo turno delle legislative erano invero poco interessate al resto del mondo. Lo sguardo verso nord, verso il dirimpettaio Regno Unito, è distratto, un analista mi ha detto che sì, il senso di fine-di-mondo è simile, Macron almeno si è risparmiato la giacca fradicia. Il giudizio sul presidente francese è stato fin da subito impietoso e, ora sappiamo, sbrigativo. Ha deciso la dissoluzione dell’Assemblea nazionale – “dissoluzione” è un termine che ha assunto un significato più ampio, è dissoluzione tutto quel che ha a che fare con Macron, con il macronismo, con questo esperimento europeista e centrista che ha ispirato e condizionato la politica europea negli ultimi anni – senza fare nemmeno lui troppe consultazioni, costringendo il paese a una corsa elettorale improvvisa, sbagliando i primi calcoli. Il mondo macroniano si è sfaldato tra indiscrezioni e pianificazioni per il futuro: mai viste tante frasi sprezzanti attribuite al circolo presidenziale, compresa quella che più ha avuto successo sui giornali inglesi (no, non ce la fanno a guardarsi di qui e di là dalla Manica senza amarsi e odiarsi e rinfacciarsi qualsiasi cosa) che dice: non sarebbe meglio chiudere il presidente francese in uno sgabuzzino? Tra i non consultati della grande decisione estiva che si è conclusa con un’enorme sorpresa nelle urne affollate di ieri, c’era anche il premier, Gabriel Attal, che soltanto una manciata di settimane fa era stato celebrato come il delfino perfetto, non soltanto del presidente, ma anche del macronismo, un progetto che ha otto anni di vita (la nascita di En Marche è contemporanea alla campagna referendaria per la Brexit). Oggi Attal è l’agnello sacrificale della dissoluzione, e si è dimesso, gelido con il suo presidente. Ho provato a capire, nelle mie conversazioni parigine tutte piene di soglie parlamentari, numeri e totonomi di possibili premier, se c’era qualcuno disposto a non dire: che catastrofe. Ero convinta che non lo fosse, che la scommessa di Macron fosse – e sia – certamente rischiosa, ma che andasse valutata nel tempo, perché era pensata con un occhio più lungo a queste legislative. Soltanto un analista mi ha detto che il verdetto sulla scelta di indire le elezioni anticipate e di aprire così alla possibilità di una coabitazione con il Rassemblement national (che evidentemente non ci sarà), non si può dare ora. Quel che sta avvenendo in queste ore, con la vittoria del Nuovo fronte popolare, l’alleanza delle sinistre, e con la vittoria della politica delle desistenze, una strategia coordinata con i macroniani per sconfiggere il Rassemblement national - “l’alleanza del disonore”, l’ha definita ieri sera Jordan Bardella, livido - è l’inizio di una nuova stagione per la Francia. Questo non cancella il fatto che il macronismo è Macron, il quale nel 2027 non potrà più ricandidarsi alla presidenza, il quale non ha di fatto costruito un partito – e, mi dicono senza condizionali, non lo ha fatto appositamente – e che quindi potrebbe portare via con sé, fuori dall’Eliseo, questi dieci anni di potere. Ecco perché “dissoluzione” ha preso un significato apocalittico.
Tom Baldwin ha scritto il libro che tutti hanno letto per conoscere Keir Starmer: si intitola “Keir Starmer: The Biography”. La notte del 4 luglio, quando le urne britanniche si stavano per chiudere, Baldwin era a casa di Starmer – non la sua, ne ha presa in prestito una da un amico – e ha raccontato sull’Observer quel che ha visto. Gli ultimi due minuti prima della pubblicazione degli exit poll, non parlava più nessuno. I collaboratori più stretti di Starmer erano in fondo al salotto, si abbracciavano in silenzio, eccitati ed esausti al tempo stesso. Davanti a loro, sul divano davanti al televisore, c’erano Starmer, sua moglie Victoria detta Vic, e i due figli adolescenti, un maschio (con addosso una maglietta dell’Arsenal) e una femmina (che non vuole trasferirsi a Downing Street), che ha fatto un gridolino che ha dato a tutti la scusa per ridere un pochino quando ha visto il volto di suo padre comparire sullo schermo, nella grafica degli exit polls della Bbc. Un minuto prima delle 22 è iniziato il countdown, Starmer e sua moglie abbracciati, le mani strette, poi l’annuncio: “Il Big Ben batte le 22 e l’exit poll indica una vittoria a valanga del Labour. Keir Starmer diventerà premier con una maggioranza di circa 170 seggi” ai Comuni, dice la Bbc. La famiglia Starmer si è abbracciata, Baldwin scrive: “Decine di interviste e di profili hanno descritto Starmer e le sue ‘notti insonni’ a preoccuparsi dell’impatto che il suo diventare premier avrà sui figli. Forse te lo aspetti che un politico dica che ha queste preoccupazioni. Ma anche il cinico più cinico si ammorbidirebbe vedendolo sul divano con la sua famiglia mentre ricevono la notizia che la loro vita cambierà per sempre”. Starmer non è un leader che sognava da bambino di diventare re ripetendo frasi sulla propria incoronazione davanti allo specchio, è entrato ai Comuni nel 2015, è diventato leader del Labour nel 2020 dopo che il partito aveva subìto una sconfitta storica e i Tory sembravano destinati a governare con una solida maggioranza ancora per molto tempo, non ha mai voluto definire alcun tipo di “starmerismo” se non con la determinazione del “get stuff done”. Il capo della comunicazione della campagna, Matthew Doyle, dice: “Quindi abbiamo vinto”, e iniziano gli abbracci, qualcuno si avvicina al buffet che era rimasto fino a quel momento intonso, non c’è nulla di alcolico, Victoria telefona ai suoi genitori. Poi salta internet. Non c’è più il wifi, lo schermo del televisore si blocca, “il nuovo premier britannico è tagliato fuori dal mondo”, scrive Baldwin, “e dice: ‘E’ un pochino frustrante’, con il suo caratteristico understatement”. Starmer sale al piano di sopra per vedere di far funzionare internet, la sua chief of staff Sue Gray gli grida da sotto che la sicurezza gli toglierà il suo cellulare personale quando andrà a Downing Street. “No, non me lo toglieranno”, risponde urlando da sopra Starmer. Sabato a pranzo, dice Baldwin, con il premier insediato e il governo formato, Starmer ha ancora il suo cellulare.
Il Labour ha vinto le elezioni britanniche a valanga, se si guardano i seggi conquistati ai Comuni (412 su 650, il 63 per cento), ma con il 34 per cento dei voti complessivi, che è una percentuale bassa. Lo Spectator ha pubblicato un grafico che mette a confronto la percentuale del voto popolare e la percentuale dei seggi ottenuti in Parlamento in tutte le elezioni dal 1945 a oggi. Qualche esempio: nel 1997, l’anno della valanga d’oro di Tony Blair, il Labour prese il 43 per cento dei voti e il 63 per cento dei seggi; nel 2001, alla scontatissima rielezione di Blair, il Labour prese il 41 per cento dei voti e confermò il 63 per cento dei seggi; nel 2019, i Tory di Boris Johsnon vinsero il 44 per cento del voto e il 56 per cento dei seggi. Giovedì ci sono stati pochi voti e moltissimi seggi. La parte positiva di questa formula è stata determinata da una strategia elettorale efficientissima, “da killer”, mi hanno detto degli esperti, studiata in particolare da Morgan McSweeney, capo della campagna elettorale di Starmer, e oggi il più cercato e chiacchierato degli architetti di questa vittoria. McSweeney ha scelto i collegi dove concentrare gli investimenti e le visite dei leader e ha evidentemente preso tutte decisioni corrette: “La performance più efficiente dell’era moderna”, dice Beth Rigby, responsabile della politica di Sky News.
Poi c’è la parte più problematica di questa valanga anomala e, come spesso accade, la gran parte delle analisi del voto britannico, anche in Italia, si è concentrata su questa. Parlando con alcuni esperti e funzionari a Parigi, la frase che più ho sentito è stata: eh ma Starmer ha preso pochissimi voti (9 milioni e settecentomila), meno di quelli che prese Jeremy Corbyn nel 2017 (12 milioni e ottocentomila), quando il Labour fu comunque battuto dai Tory di Theresa May. Questo vuol dire, secondo gli esperti che hanno già levato dalla vittoria di Starmer il fatto che sia storica e che preventivamente ne escludono un carattere rivoluzionario, che la proposta più moderata di questo Labour non è accattivante come quella massimalista di Corbyn e che i Tory, se riescono a regolare i conti interni senza ulteriori cannibalismi, in cinque anni torneranno forti e competitivi. Come per Macron e le sue scommesse piromani, non è questo il momento in cui si possono dare tutte le risposte. La mobilitazione non c’è stata nel Regno Unito – non era nemmeno prevista a giudicare dalla strategia adottata da McSweeney – ma Starmer ha scelto di fare una campagna elettorale che assomigliasse all’idea che ha lui dell’esercizio del potere: al servizio del paese. Un laburista mi ha detto, deprimendomi un po’, che troppe idee nuove non servono, bisogna far funzionare quelle che ci sono già, adattandole all’oggi. Poiché in occidente c’è un’assenza strutturale di visione, di voglia di futuro, di slancio, e prevale la dimensione, fuori dai partiti estremi che invece continuano con le promesse fantasiose, dei leader-badanti, che cercano di far funzionare le cose senza eccessive divagazioni, ho insistito: siamo sicuri che il pragmatismo sia sufficiente? Il laburista ha risposto: calma, aggiustiamo il presente, il Regno Unito ha un mal di testa atroce, la qualità della vita è peggiorata, i dati economici strutturali sono fragili, i mutui sono costosissimi, la fiducia nelle istituzioni è pari a zero, non si può chiedere agli inglesi di salire su un’altra giostra, si sentono male. Nel suo primo discorso da primo ministro, davanti a Downing Street, Starmer ha sintetizzato questo stato d’animo in modo esatto: “Combatteremo ogni giorno until you believe again”. E’ una battaglia per la restaurazione della fiducia, questa: dovete tornare a credere nella possibilità di guarire, nella politica, nei politici, nelle parole utilizzate, nei numeri. Poi, soltanto poi, le promesse avranno senso.
“L’effetto della Brexit sulla Francia ha un che di naturale e di paradossale assieme”, dice Gilles Gressani, direttore del Grand Continent, indaffaratissimo in questa domenica di elezioni francesi, tra analisi dell’affluenza, dei flussi elettorali, delle circoscrizioni in cui ci sono state le desistenze e c’è un candidato o macroniano o del Nuovo fronte popolare della sinistra a sfidare quello del Rassemblement national – è una Francia divisa in tre, inedita. “Il Rassemblement national non parla più di uscire dall’Unione europea, la Frexit è totalmente scomparsa dal dibattito, senza che nessuno dicesse che forse era un’idea sbagliata o la analizzasse: direi che anzi è come se la Frexit non ci fosse mai stata, quando sappiamo tutti che era uno dei cardini dell’ascesa del Rn. Questo si spiega con l’esito della Brexit, che non è stata soltanto un fallimento dal punto di vista economico e in rapporto alle aspettative, ma si è rivelata una costruzione politica che ha consumato tutte le energie esistenti di tutti i partiti, non lasciando spazio a nient’altro”. Se prendi una decisione come il divorzio dall’Europa, o anche solo se lo metti in programma, finisce che devi occuparti soltanto di quello, ma l’ambizione del Rn andava e va oltre il rapporto con l’Ue. “Margaret Thatcher diceva che il suo più grande successo era il New Labour di Blair: abbiamo costretto gli avversari politici a parlare come noi – dice Gressani – Questo vale anche per il macronismo. Jordan Bardella ha preso modi, parole, atteggiamenti, espressioni dai macroniani. La giacca e la cravatta, il sorriso, la postura televisiva che sembra copiata dal Macron del 2017, le parole, come ‘sovranità europea’, che sono di Macron ma che Bardella ripete sempre. Bardella ha persino studiato come dire bonjour in modo da sembrare il più rassicurante possibile”. C’è un che di inquietante in questa metamorfosi, ma è anche la dimostrazione del fatto che il macronismo ha vinto, ha imposto un codice che nella politica francese prima non c’era. “Ora quindi può essere superato – dice Gressani – e qui sta il punto. Credo che ci sia un rischio nelle cosiddette politiche del buon senso e della ragionevolezza, che è quella che ha anche permesso al Labour di Starmer di vincere, ed è il fatto che i nostri sistemi democratici funzionano con l’alternanza. Se la tua proposta è la razionalità, vuol dire che la controproposta sarà per forza di cose l’irrazionalità e questo crea una spirale che rischia di portare le nostre democrazie allo sfascio: in fondo in America lo stiamo già vedendo”. Secondo Gressani, “non è tenibile una dinamica in cui ogni cinque anni può accadere l’apocalisse”, e delinea la possibilità, di una “ristrutturazione della destra e della sinistra” in dialogo con il centro, in modo che gli estremi tornino a essere meno rilevanti. Con il Rassemblement national che doveva vincere tutto, spaccare tutto, arrivato terzo, si può cominciare a tessere la politica francese. Alla festa della France insoumise ieri sera, che sembrava alla vigilia il ripiego di una nottata tutta nera, Jean-Luc Mélenchon ha detto che “la Repubblica è salva”. L’equilibrio dentro la sinistra è ancora da trovare: si sono unite, di fronte all’avanzata lepenista, anime molto diverse (con una prevalenza radicale) che si sono sempre scontrate e combattute, e i mélenchoniani urlano dal palco della sorpresa e della sfida: siamo pronti a governare.
La Francia che ha seguito più l’appello di Mbappé che di Bardella ora deve trovare un nuovo assetto e non sarà facile, parlerà di tripartizione della politica e di esaurimento dell’esperimento del “centro razionale”, per usare le parole di Gressani, con il rischio che l’alternanza sia un estremo irrazionale. Il Regno Unito invece si rimette deciso sulla strada del centro razionale, con un leader come Starmer che dovrà fare i conti con una luna di miele corta e (almeno) un anno di difficoltà: non ci si fa quasi mai degli amici quando si deve aggiustare un paese. Tony Blair ha scritto ieri sul Sunday Times un articolo di consigli a Starmer: è stato accolto con qualche borbottio, perché il nuovo premier laburista ha fatto pace con il blairismo, ma moltissimi altri dentro e fuori il Regno no. Blair conclude il suo intervento così: “Contrariamente alla critica più comune, il centro non è il luogo del mushy middle, della metà strada pastosa e molle, tra i poli della destra e della sinistra. Il centro è il luogo delle soluzioni, non dell’ideologia, è il luogo dove le politiche vengono prima della politica: può essere di buon senso ma anche, allo stesso tempo, radicale”. La luce di Londra si è proiettata sul continente, e già si parla del documento sulla sicurezza economica che inglesi ed europei intendono discutere per costruire un riavvicinamento che mitighi gli effetti della Brexit. Si riflette anche nel cielo chiaro della sera di Parigi, in cui abbiamo capito che Macron ha preso un grosso rischio ma ha battuto di nuovo i lepenisti, che l’azzardo non è per forza catastrofe, che c’è una nuova sinistra che avanza, e che sì la marcia contro il nazionalismo non è poi così incerta.