
Giorgia Meloni e Marine Le Pen - foto Ansa
L'editoriale dell'elefantino
Giorgia Meloni e Marine Le Pen: due donne di destra, ma tutt'altro che gemelle
La vera sfida dopo le prossime elezioni europee sta tutta nelle differenze tra la leader di FdI e quella di Rassemblement national. Cosa vuol dire competere con la premier senza favorire la logica dello sfascio
La propaganda elettorale è importante, certo, ma non è tutto. Le elezioni realizzano la politica, non la sospendono. Dunque è importante capire che cosa sia nell’interesse della democrazia italiana oggi e come debbano considerare quest’interesse le forze di centrosinistra, dal Pd ai liberali dei due gruppi in lizza (Renzi e Calenda). L’opposizione al governo di centrodestra guidato da Meloni è fuori discussione, ha le sue parole e i suoi toni, i suoi argomenti, le sue verità e i suoi inganni e disconoscimenti preventivi o pregiudiziali, come sempre. Ma ogni giorno gli osservatori più seri indicano quale sia il vero contenuto politico strategico di queste elezioni. Lo schema è piuttosto semplice.
Popolari e socialisti e altri diversi saranno probabilmente in grado, nonostante le forti difficoltà nella raccolta del consenso in Germania, Francia, Spagna, Grecia e Italia, di radunare una proposta autonoma di maggioranza per la guida dell’Unione europea, che deve passare per il vaglio del Parlamento in via di rinnovo. Non è certo però, è solo probabile. L’eventualità di un rimescolamento, che richiederebbe un’apertura verso parte del centrodestra conservatore e identitario, diviso in gruppi parlamentari e posizioni politiche distinte, di qua gli identitari duri Salvini e Marine Le Pen, di là il gruppo conservatore fondato da David Cameron e comprendente Meloni, non può essere esclusa. Ci sono due leader nel centrodestra europeo, Meloni e Le Pen, due donne che percorrono strade diverse, una al governo e l’altra all’opposizione in vista della gara delle presidenziali dopo Macron.
Le Pen è sulla via di Damasco, per così dire, e ha rotto con l’impraticabile AfD tedesca, in ascesa elettorale ma ideologicamente incendiaria. Tuttavia le sue credenziali in politica estera, insomma sul tema dirimente della guerra e della pace, del rapporto con la Russia di Putin e i suoi oltranzismi blindati, del posto dell’Unione nel contesto euroatlantico e Nato, sono estremamente deboli. La via di Damasco è lunga e tortuosa. L’opposto vale per Meloni. La presidente del Consiglio italiana è pro Ucraina, tiene a una relazione speciale di amicizia con l’America di Biden, in attesa degli sviluppi, ha assunto su temi incandescenti come la sicurezza e l’immigrazione, il mercato unico e l’economia, l’energia pesante e green e il piano di fondi comuni per la ricostruzione post Covid, posizioni pragmatiche e di mainstream europeo, ha collaborato senza pregiudiziali con la commissione di Ursula von der Leyen, candidata dei popolari, il maggiore partito, per la successione a sé stessa. Lo stesso certo non si può dire per Le Pen, che mantiene ferma una piattaforma sovranista vecchio stile nell’economia e su tutto il resto, malgrado abbia intiepidito le vecchie pregiudiziali antiunione, considerando discriminante il suo “no” a una qualsiasi collaborazione con un governo espressione in qualche modo allargata della maggioranza uscente di Strasburgo.
Ha senso e corrisponde all’interesse dei riformisti italiani, e della sinistra politica, e del paese in quanto tale, lavorare per gli scopi politici di Marine Le Pen, che è con un piede (ipotetico) nel potere in Francia ma è fuori dal sistema, e contro l’ambiguità strategica di Giorgia Meloni, che invece al potere è arrivata, lo pratica in una evidente integrazione di linguaggio e di politica con la storia europea e il quadro di riferimento dell’Unione, e che vuole giocare il peso dei suoi voti e delle sue alleanze lasciandosi le mani libere e intanto indicando un itinerario di normalizzazione pragmatica della vecchia ideologia sovranista antieuropea? Competere con Meloni senza favorire la logica dello sfascio o della rottura identitario-sovranista dell’Europa: qui è la questione, e non è chiaro se riformisti e democratici italiani fingano di non averla capita o non l’abbiano capita davvero.