Una manifestazione a Lod nel 2021 (LaPresse)

Il documentario

“Mourning in Lod”, un film che cura e un rene ebraico in un corpo palestinese

Fabiana Magrì

La regista e produttrice Hilla Medalia torna sulle scene da guerra civile di due anni fa, dove oggi arabi e ebrei convivono tra normalità e tensione. “La storia è il simbolo di un legame tra le nostre due comunità”, racconta al Foglio

Tel Aviv. A distanza di due anni dalle scene da guerra civile nelle strade di Lod nel maggio del 2021, il documentario della regista e produttrice, “Mourning in Lod” (“Lutto a Lod”), torna sui fatti accaduti nella città israeliana dove arabi ed ebrei convivono tra normalità e tensione. E sul loro impatto nel microcosmo di tre famiglie. La sera della prima a Tel Aviv (il 18 maggio) gli Hassouna, i Yehoshua e gli Aweis, le famiglie delle vittime degli scontri,  sono arrivati assieme alla Cinematheque. Marwa Hassouna con due amiche. Irena Yehoshua, timida e riservata, con il cognato Efi. Randa Aweis incollata alle figlie Shirihan e Niveen. In sala si sono seduti gli uni accanto agli altri. Sui loro volti, le emozioni dei fatti che hanno segnato le loro vite: il 10 maggio del 2021, durante il Ramadan, la spianata delle Moschee era ridotta a un campo di guerriglia urbana. Fin dalle prime ore della mattina erano iniziati lanci di pietre e bottiglie molotov sulla polizia da parte di riottosi palestinesi. Gli agenti avevano risposto con granate assordanti e proiettili di gomma.

 

L’Autorità nazionale palestinese gridò all’ “assalto ad Al Aqsa”. Per le forze dell’ordine, si trattava della necessità di sedare una violenta rivolta. Non era bastato il rinvio degli sgomberi delle famiglie palestinesi dalle case di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est. Né il divieto per gli ebrei di accedere, per il Jerusalem Day, al Monte del Tempio (il nome ebraico per la Spianata delle Moschee). Gli animi erano ormai troppo infuocati e il crescendo di violenza dilagò nelle città israeliane a forte presenza araba. A distanza di 24 ore uno dall’altro, gli Hassouna (arabi) persero Musa (33 anni) e gli Yehoshua (ebrei) Yigal (56 anni). Entrambi stavano rientrando a casa da mogli e figli. Marwa e Musa erano stati al centro commerciale, alla vigilia di un viaggio con i tre figli, per gli ultimi acquisti prima della partenza. Musa aveva accompagnato a casa la moglie e aveva raggiunto gli amici per un saluto a casa di suo fratello. Yigal, dopo essere stato in sinagoga, era al volante della sua auto, sulla strada per casa, dove l’attendevano la moglie Irena e i due figli. Si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, diventando vittime delle proteste, delle reazioni e della vendetta.

 

Randa invece, 58enne araba cristiana di Gerusalemme est, la vita l’ha potuta riconquistare grazie al trapianto degli organi di Yigal, donazione a cui i Yehoshua hanno dato il consenso. Una compensazione che non pareggia certo lo stato collettivo di lutto senza fine, ma un poco lenisce: “Un rene ebraico in un corpo palestinese è il simbolo di un legame tra le nostre due comunità non solo nella morte ma anche nella vita e nel futuro”, dice al Foglio la regista di “Mourning in Lod”, Hilla Medalia. “E il fatto che Marwa, Irena e Randa siano qui insieme è un messaggio di speranza. Le persone che a Lod hanno pagato con la loro vita, erano uomini. La maggior parte dei partecipanti a quegli eventi di violenza, erano uomini. Ma chi ha raccolto i cocci di queste sofferenza e sta tentando di ricomporli sono donne. Forti, coraggiose e generose. Accomunate dal lutto e da un obiettivo condiviso: garantire un futuro migliore ai figli, libero da sentimenti di odio e vendetta”.

 

Anche la realizzazione del documentario è stato un’occasione per ricucire il rapporto di fiducia reciproca tra arabi ed ebrei della comunità di Lod. A molti livelli. I due direttori della fotografia per esempio, l’israeliano Avner Shahaf e il palestinese Hanna Abu Sada, hanno collaborato con le rispettive troupe alla presenza della popolazione mista. E il materiale di archivio sulle notti di violenze è stato concesso, non senza una paziente opera di persuasione, da arabi ed ebrei di Lod, superando il sospetto e la paura. “Anche per Marwa –  riflette la regista –  è stata dura lasciarmi entrare, io israeliana, nella sua famiglia araba in un momento così difficile”. 

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