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la turchia al ballottaggio

Come si spiega il voto dei turchi all'estero

Daniel Mosseri 

L’Europa continentale ha votato in massa per Erdogan, mentre in Svizzera e in Gran Bretagna, come anche in Nord America o negli Emirati, hanno massicciamente preferito il progressista Kiliçdaroglu. Expat vs emigrati, livelli di studio e di reddito diversi. Una mappa del voto

Berlino. Quando nel 2014 concesse il diritto di voto ai suoi connazionali all’estero, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan fu lungimirante: a ogni appuntamento elettorale la diaspora gli ha restituito il favore, votando a maggioranza per lui e per il suo partito Akp. A  fine luglio 2014, quando 103 consolati in 54 paesi aprirono le porte alle presidenziali (ma la Turchia era ancora una repubblica parlamentare), gli aventi diritti erano 2,73 milioni: il meccanismo era stato appena rodato e all’appuntamento si presentarono soltanto in 231 mila, l’8 per cento degli aventi diritto. Già allora Erdogan fu votato dal 62,3 per cento degli emigrati contro il 51,6 per cento dei residenti in patria – e passò con il 51,8 per cento. Lo stesso accadde nel 2017, quando la grande maggioranza degli espatriati approvò a valanga il referendum costituzionale per trasformare la Turchia in un regime presidenziale. Allora una minoranza all’interno della diaspora, i turchi in Gran Bretagna, America del nord e nel Golfo persico (Arabia Saudita esclusa), si oppose. La tendenza si è mantenuta: nel 2018 il collegio estero ha scelto Erdogan al 59 per cento contro il 52 in patria ma intanto l’affluenza ai consolati era arrivata al 50 per cento. Domenica scorsa l’affluenza è salita al 53 per cento (ma con picchi del +20 per cento in Germania) e di nuovo l’Europa continentale ha votato in massa per Erdogan, con punte del 72 per cento in Austria e in Belgio. E di nuovo i turchi in Svizzera e in Gran Bretagna, come anche in Nord America o negli Emirati, hanno massicciamente preferito il progressista laico Kemal Kiliçdaroglu al presidente uscente islamico e conservatore. La lettura dei risultati nel collegio estero regala dunque l’immagine di una diaspora eterogenea – specchio di un paese vasto – ma sempre molto polarizzata. Nel Regno Unito ha votato un elettore su due e  Kilicdaroglu ha vinto con percentuali quasi bulgare: il 79 per cento. Kiliçdaroglu ha raccolto il 73 per cento in Italia, il 79 in Canada, l’80 negli Stati Uniti e il 67 negli Emirati arabi uniti. 

“Non sono un sociologo ma mi pare chiaro che la popolarità di Erdogan e dell’Akp sia inversamente proporzionale al titolo di studio”, riferisce al Foglio da Abu Dhabi un accademico turco che preferisce restare anonimo, “e qua molti connazionali sono ingegneri, professori, insegnanti”. Una spiegazione empirica che trova conforto nelle parole di Friedrich Puttmann, ricercatore presso la London School of Economics, e già associato allo Istanbul Policy Center. Negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito, conferma, ci sono molti colletti bianchi turchi espatriati, attivi nell’accademia, nelle banche o nel settore dei servizi “e che spesso hanno lasciato la Turchia proprio a causa della sua graduale trasformazione verso un maggiore conservatorismo sociale sotto Erdogan”. Al contrario, “per la maggior parte, i turchi in Germania, Belgio e Paesi Bassi sono Gastarbeiter o loro discendenti che anche in Turchia votano tipicamente per Erdogan”. Chi ha un lavoro manuale, proviene dalle zone rurali dell’Anatolia centrale, ha un basso livello di istruzione e valori religiosamente conservatori tenderà a votare per Erdogan, a casa come all’estero. Sono persone che formano la propria opinione su media turchi – a Berlino ci sono interi palazzi tempestati di antenne satellitari rivolte verso la madrepatria – e fanno propria la retorica di un regime che tratta da terroristi oppositori e giornalisti. Specularmente, riprende Puttmann, “è molto più facile integrarsi a Londra da impiegato turco della Vodafone che parla perfettamente l’inglese già prima di arrivare nel Regno Unito”. Expat contro emigrati, insomma, con i primi lieti di bocciare il governo che li ha spinti a lasciare il paese e i secondi fieri di votare per chi incarna l’orgoglio turco. Non è un caso, conclude Putterman, che “un gruppo di giovani turchi espatriati altamente istruiti in tutto il mondo ha pubblicato un video prima delle elezioni a sostegno dell’opposizione con il titolo ‘Se volete, noi torniamo’”.

Resta da spiegare il caso della Svizzera, dove ha votato il 56,7 per cento (rispetto al 48 in Germania) e il 57 per cento ha scelto Kiliçdaroglu. I Gastarbeiter della Confederazione elvetica non sono expat multilingue e, al pari dei turchi tedeschi e austriaci, hanno sperimentato decenni di discriminazione a scuola, sul lavoro, o nella ricerca di un immobile. La ragione è di natura etnica: il loro passaporto è turco ma la loro lingua e il loro cuore sono curdi.

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