La resistenza dei fiocchi gialli

Così la resistenza ucraina è diventata ambizione limpida di libertà

Paola Peduzzi

Gli ucraini resistono e liberano territori da più di 420 giorni, trasformando la Z del terrore russo in una clessidra e seminando simboli per farsi coraggio

Milano. Resistenza e liberazione sono le parole che gli ucraini scandiscono da quando Vladimir Putin ha invaso il loro paese. Contano i giorni (sono  426), contano le ore (sono più di diecimila), si organizzano, cantano, combattono, si nascondono, testimoniano, disseminano l’Ucraina dei simboli della loro lotta. Yellow Ribbon, uno dei gruppi più efficaci, creativi e coraggiosi nati da questa determinazione solidale indefessa, insegna a trasformare la famigerata Z disegnata dall’esercito putiniano come segno (sfregio) di conquista in una clessidra: è questione di tempo, l’esercito ucraino arriverà a liberarvi, resistete. Le clessidre compaiono nei territori occupati, assieme ai fiocchi gialli, alla “Ï” che esiste solo nell’alfabeto ucraino, ai messaggi di incoraggiamento, alle scritte in ucraino sulle banconote di rubli che i russi impongono nelle zone occupate: lasciare questi simboli su un muro, un vicolo, un albero è un piccolo enorme successo che viene documentato online, nei canali Telegram e nelle chat anonime in cui i resistenti possono rimanere anonimi e quindi sopravvivere.

 

Perché resistere e organizzarsi per quando la liberazione arriverà ha un costo alto: il Kyiv Independent ha parlato con una coppia che è riuscita a scappare da Melitopol, occupata dai russi, ma che ha ancora la famiglia lì, quindi racconta ma con gli occhi di chi sa che il terrore è ancora una possibilità, una realtà – scampati, ma non salvi. Maryna, il nome è di fantasia, è stata sequestrata dai soldati russi: avevano il volto coperto, ma lei conosceva le loro voci, erano già andati a estorcerle mille dollari per lasciarle l’automobile che le serviva per lavorare, lei li ha dati sperando di levarseli di torno, ma sono tornati, le hanno trovato l’app Dia del governo ucraino sul telefono, l’hanno presa “per una chiacchierata”, l’hanno picchiata, l’hanno data a un ceceno perché “lo intrattenesse”, l’hanno filmata: è stata rilasciata in uno scambio di prigionieri (sono 2.235 finora gli ucraini riportati indietro). 

 

I ritorni a casa dei soldati o dei prigionieri sono attimi di commozione pura, abbracci e lacrime e molti silenzi di chi rientra perché i segni della guerra non restano soltanto sui corpi. Nel suo “Diary of an Invasion”, lo scrittore ucraino Andrey Kurkov racconta la resistenza, dice che gli ucraini “non vogliono che le loro abitudini siano fermate dai nemici”, e questo è un “messaggio potentissimo” perché vuol dire che l’Ucraina può essere solo “libera, indipendente, europea o non esisterà più”. La resistenza si è trasformata in un’idea limpida di futuro, in un’ambizione occidentale che va oltre la sconfitta necessaria dell’invasore e che fa da motore per i fiocchi gialli, per il lavoro costante e doloroso dell’identificazione delle vittime, per far uscire gli ucraini detenuti illegalmente dai russi, per costruire una resistenza capillare attraverso la rete che crea quel che il fondatore di Yellow Ribbon chiama “effetto valanga”: non servono grandi mezzi, ma coraggio sì, ne serve tantissimo. Assieme a una grande sicurezza, perché i russi sanno che queste resistenze – sono tante – tengono accesa la speranza della liberazione, la luce di un futuro senza un aggressore indiscriminato in terra e in cielo, e quindi fanno di tutto per scovarle ed eliminarle con la forza o con la menzogna. Pavel Gubarev, uno dei signori della guerra in Donbas, ha detto rivolgendosi agli ucraini: “Non siamo venuti per ammazzarvi, ma per convincervi. Ma se voi non vi lasciate convincere, vi uccidiamo. Quanti ne saranno necessari, un milione, cinque milioni: vi uccidiamo”. 

 

Quando nel 2012 uscì il libro “Why civil resistance works” di Erica Chenoweth e Maria Stephan, uno studio novecentesco di dove, come e a che condizioni la resistenza della società civile aveva funzionato, sembrò un saggio eccessivamente idealistico e lontano, qualche recensore scrisse che erano stati scelti soltanto i luoghi in cui le cose erano andate bene tralasciando quelli dove i regimi avevano avuto la meglio. Rileggendolo ora c’è un dettaglio che spicca: dove la resistenza civile ha attecchito, c’è stato un cambiamento verso democrazia e libertà quasi costante, come se queste società avessero accompagnato con il loro coraggio, la loro costanza e la loro solidarietà quotidiana gli eserciti contro i totalitarismi, il terrorismo e la loro consueta combinazione. Ci capita spesso, anche guardando alla nostra resistenza, di indagarne le motivazioni, se è odio, vendetta o nazionalismo: queste sono analisi semmai buone in tempo di pace. In guerra contano l’ambizione della resistenza     – la stiamo vedendo anche in Sudan in queste ore, mentre gli occidentali s’affrettano a scappare e chi non ha vie di fuga si aiuta, si attrezza, si difende – e la semplicità potente di voler vivere liberi. 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi