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Il nodo sicurezza

La Russia ha interesse a destabilizzarci con i migranti, ma a Roma regna il caos

Vittorio Emanuele Parsi

L’ipotesi che la Wagner utilizzi come un’arma i flussi che puntano sull’Italia non è da escludere a priori, ma va verificata in termini quantitativi e qualitativi. Tutte le navi russe nel Mediterraneo e il guaio degli interlocutori libici

Oltre ad avere una serie di innegabili dimensioni umanitarie ed economiche, i flussi migratori rappresentano anche una questione di sicurezza nazionale? Direi che la risposta è ovvia, se solo si considera l’impatto che, storicamente, essi hanno avuto nelle vicende di più di una comunità politica. E aggiungerei che, in una concezione della sicurezza nazionale che non si riduca all’angusto inventario degli asset militari, preoccuparsene anche in termini di sicurezza è legittimo. Oltretutto, in uno scenario di guerra ibrida, come quella che la Russia sta conducendo contro l’Ucraina e le democrazie occidentali, l’ipotesi che la compagnia di sicurezza Wagner possa voler utilizzare come un’arma anche i flussi che puntano sull’Italia non è da escludere a priori. Punire o rendere la vita difficile a un governo convintamente leale alla solidarietà con l’Ucraina sarebbe funzionale agli interessi russi. Wagner è presente sulle coste orientali della Libia, in diversi paesi del Sahel e dell’Africa subsahariana, agisce per conto del Cremlino e si può supporre sia interessata anche economicamente a inserirsi nel barbaro e lucroso mercato del traffico di esseri umani. È il fenomeno descritto da Mike Galeotti nel suo “The Weaponisation of Everything” (Yale University Press, 2022), secondo il quale nel mondo contemporaneo, caratterizzato da fortissima interdipendenza ma anche da uno scontro altrettanto duro per la leadership globale, ogni cosa può essere utilizzata come un’arma, a prescindere dalla sua natura intrinseca. Altra cosa è però determinare se Wagner sia in grado di realizzare questa aspirazione e con quali esiti. Per quel che ne sappiamo, al momento, l’ipotesi è fondata ma da verificare in termini qualitativi e quantitativi.

 

Il punto è che anche assumendo che la Russia e i suoi proxy possano agire nel senso evocato in apertura, è difficile non constatare che l’efficacia della loro azione è amplificata dal fatto che il governo non sembra avere le idee chiare né sul che cosa fare né sul come farlo. Sono anche queste incertezza e inconcludenza a incidere, sensibilmente, su una concezione evoluta della sicurezza nazionale. Come è emerso fin troppo bene dalla seduta del Consiglio dei ministri tenuta a Cutro, dai provvedimenti annunciati e dalla sgangherata conferenza stampa che l’ha conclusa, si direbbe che a Roma regni una certa confusione, innanzitutto concettuale. La tragedia di Cutro ha messo in luce una serie di inefficienze e contraddizioni nella gestione del soccorso in mare che ha portato alla morte di oltre 70 persone, in gran parte del tutto legittimate a ottenere la protezione internazionale come rifugiati politici, considerando i paesi di provenienza: Iran, Afghanistan, Siria, Pakistan... Invece le misure che sono state annunciate riguardano, da un lato, l’inasprimento delle pene per gli scafisti (“i picciotti” della mafia dello human trafficking) dall’altro l’aumento dei flussi autorizzati per l’immigrazione di manodopera destinata al mercato del lavoro italiano. Tutte misure che per evitare il ripetersi di tragedie come quelle di Cutro, per migliorare la sicurezza in mare e per provare ad affrontare il tema delle migrazioni presenti e imminenti servono a poco o nulla.

 

Distinguere tra potenziali rifugiati politici, possibili rifugiati economici, migranti in cerca di lavoro e “naufraghi annunciati” dovrebbe essere la prima operazione di pulizia concettuale necessaria per impostare qualunque politica credibile ed efficace: qualunque, dalla più accogliente alla più truce. I primi hanno diritto a essere accolti come richiedenti asilo senza che le procedure siano volutamente vessatorie e inumane, come invece regolarmente accade fuori dagli uffici delle nostre questure da qualche mese a questa parte. L’accoglimento dei secondi non gode delle stesse tutele internazionali, e i terzi possono anche essere fatti arrivare attraverso procedure concordate con i paesi d’origine, che con i “corridoi umanitari” non hanno però nulla a che vedere. I naufraghi, infine, vanno salvati punto e basta. E il loro salvataggio non comporta nessun automatico dovere di accoglienza permanente se non ricorrono altri requisiti (derivanti dall’applicazione obbligatoria delle leggi internazionali o dalla legittima volizione politica). Il che ovviamente non giustifica l’incomprensibile indifferenza e l’inaccettabile sciatteria con cui vengono trattati.

 

Sul tema delle operazioni Sar (Search and Rescue) e della loro ripartizione, il punto che andrebbe sollevato è che un meccanismo pensato per fronteggiare un evento eccezionale come il naufragio (le navi sono concepite per stare a galla, non per affondare e, in linea di massima, ci riescono egregiamente) è in evidente difficoltà nel fronteggiare i naufragi programmati che costituiscono il business del traffico di esseri umani. Il “carico” umano (residuale o meno) ha un valore all’imbarco e nessun valore alla consegna. Non stiamo mica parlando di droga, armi, tabacco o altre merci, che devono essere consegnate a destinazione per ottenere un pagamento. Qui è la “merce” che paga per essere spostata altrove e i trafficanti non hanno alcun interesse a che la spedizione vada a buon fine. Perdere il carico, battello e scafista compresi, non comporta nessun significativo danno economico. E quelli che si svenano per acquistare un passaggio verso la speranza di una vita migliore sono talmente disperati da essere disposti a correre qualunque rischio (e a farlo correre anche ai loro cari), così che nessuna campagna informativa sui rischi cui vanno incontro potrà mai dissuaderli.

 

La confusione tra migranti, rifugiati economici, rifugiati politici e naufraghi non l’ha inventata questo governo né “la destra”. Precedenti esecutivi, precedenti maggioranze e altre e diverse culture politiche hanno concorso ad alimentarla, sia pure, magari, per finalità opposte. Per anni abbiamo ascoltato la tesi che “non c’è differenza tra i rifugiati economici e i rifugiati politici”, con il prevedibile risultato che abbiamo assistito alla concreta diminuzione dell’effettiva tutela dei primi e non certo all’innalzamento della protezione dei secondi. Oppure ci è stato raccontato che attraverso l’immigrazione si metteva in sicurezza il  sistema pensionistico e si trovava la manodopera per il sistema produttivo italiano (operai, braccianti, colf, badanti, addetti alle pulizie, e altro), senza che nessuno riconoscesse che trasformare un rifugiato economico in uno di questi profili lavorativi non è un’operazione per nulla scontata. Al di là dell’opposizione tra “trucismo” e “accoglienza”, il tema è evitare quella confusione che consente a tutti di declinare posizioni identitarie (più che ideologiche) infischiandosene dei risultati concreti. È un caso classico della conciliazione della razionalità rispetto ai valori e di quella rispetto agli obiettivi di weberiana memoria, che rappresenta il cuore del rapporto tra “politica” e “politiche”, sacrificata sull’altare della “identitarismo” (che è la versione per dummies dell’ideologismo).

 

Sia ben chiaro. Non sostengo l’equivalenza delle due impostazioni (quella truce e quella accogliente): dal punto di vista della cultura politica più appropriata al corretto funzionamento delle democrazie liberali del XXI secolo – a maggior ragione essendo sotto attacco da parte dei regimi dispotici – posizioni più attente all’affermazione universalistica dei princìpi e dei valori sui quali esse si fondano risulta più coerente. D’altronde sappiamo che esistono democrazie che si stanno muovendo in direzione opposta. Il governo di Sua Maestà ha appena proposto un disegno di legge che rispedisce nel paese d’origine o addirittura deporta in Ruanda (nel caso non sia possibile il rimpatrio) chiunque sia approdato illegalmente sulle Isole britanniche. È un respingimento che impedisce persino la sottoposizione della richiesta di asilo politico, che vìola il diritto internazionale e le norme dell’Unione europee (ma il Regno Unito è fuori dall’Ue). È appena il caso di ricordare che il numero di morti nella Manica è una frazione minuscola rispetto a quello di chi perde la vita nel Mediterraneo. L’Italia non potrebbe ovviamente adottare una simile linea (siamo nell’Ue), ma credo che nemmeno la sensibilità della nostra opinione pubblica sosterrebbe una misura tanto draconiana, con buona pace di Matteo Salvini.

 

Se non altro il governo inglese ha chiarito qual è la sua posizione e come intende attuarla, senza infingimenti e confusione. Sarebbe utile sapere che cosa intende fare e con che strumenti il governo presieduto da Giorgia Meloni. Considerando non solo i propri desideri (condivisibili o meno che siano), le promesse elettorali e gli equilibri interni al governo, ma anche il realisticamente, decentemente e legalmente possibile di questi tempi. Solo per fare un esempio: con la quantità di navi e sottomarini russi presenti nel Mediterraneo e data la postura aggressiva della Russia, la riedizione di un’operazione in grande stile di salvataggio o di polizia di frontiera nei confronti del traffico di esseri umani è difficilmente realizzabile. E dubito che la Marina militare vedrebbe di buon grado la sostituzione dei suoi compiti istituzionali (la difesa militare della Repubblica) di fronte a una minaccia effettiva (la Russia e la sua flotta) con altri impropri. Né sarebbe conveniente per la professionalità dei nostri uomini e delle nostre donne in divisa una divisione dei compiti con le altre Marine della Nato, in cui agli altri si lascia la competenza di difesa di alta qualità e noi ci trasformiamo negli “sceriffi” del mare.

 

Infine, siamo poi proprio sicuri che chi manovra i flussi di migranti come arma nei confronti delle autorità italiane siano primariamente la Wagner e il Cremlino? Nelle sue accurate ricostruzioni, Nello Scavo (“Libyagate”, Vita e Pensiero, 2023) – che pure non nasconde il peso dell’incognita Wagner – indica con evidenza di fatti una “contiguità” (se non una  “sovrapposizione”) tra le figure libiche che sono sospettate di essere al centro del traffico di esseri umani e quelle formalmente incaricate di contrastarlo e combatterlo (anche con l’ausilio del denaro e dei mezzi messi a disposizione da una serie di governi italiani di tutti i colori). Siamo convinti di averne comprato la collaborazione (parlare di lealtà mi sembra eccessivo), ma parliamo di soggetti legittimamente sospettabili di poter vendere le stesse prestazioni a più di un acquirente e contemporaneamente. Allora, proprio per dare forza alla posizione di chi legittimamente si interroga sul rischio che la Wagner possa incidere sulla stabilità del governo italiano, avrebbe molto senso indagare sull’analogo ruolo che i nostri “interlocutori” di Tripoli potrebbero svolgere e per di più pagati da noi.

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