(foto EPA)

Gautam Adani, il diamante indiano

Giulia Pompili

Dalle pietre preziose al carbone. La storia pazzesca del secondo uomo più ricco del mondo

Immaginate Jeff Bezos che si fa una foto ricordo davanti alla Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze: come minimo Piazza del Duomo sarebbe chiusa, circondata dai suoi uomini della sicurezza, e probabilmente Bezos sarebbe accompagnato dal sindaco in persona, come fece Matteo Renzi nel 2016. Tre anni fa, subito prima della pandemia, una simpatica famiglia indiana – padre, madre, figli, nipoti – passava inosservata tra i negozi di souvenir fiorentini. Il signore coi baffi, il più sorridente di tutti, nelle foto viene sempre con gli occhi chiusi. Ce n’è una di lui con la moglie un po’ storta, che ha voluto pubblicare pure su Instagram. Quella famiglia, uguale a tantissime famiglie che scelgono l’Italia come luogo per le vacanze, in realtà aveva più a che fare con Jeff Bezos che con gli altri. Poche ore prima, era atterrata in Italia dopo aver viaggiato dall’India su un Challenger 605, jet privato di produzione canadese, o più probabilmente su un Hawker Beechcraft 850XP, di fabbricazione inglese. Dei tre jet privati che possiede, quest’ultimo è il preferito da Gautam Adani, l’uomo coi baffi che tre anni fa passeggiava anonimamente per Firenze con la famiglia. 

 

Fondatore e presidente del colosso che porta il suo nome, a settembre di quest’anno, e per poco più di una decina di giorni, Gautam Adani è stato il secondo uomo più ricco della terra, subito dopo Elon Musk. Secondo il Bloomberg Business index sugli uomini più facoltosi del mondo, nel 2022 Adani ha superato in patrimonio Bernard Arnault, cofondatore e presidente di Lvmh, e Bill Gates, fondatore di Microsoft. Ma il 16 settembre scorso era avvenuto l’inimmaginabile:  con 146,8 miliardi di dollari di patrimonio, Adani aveva superato anche il fondatore di Amazon Jeff Bezos – che si era ripreso il titolo poco dopo per qualche milione di differenza (leader indiscusso della classifica, quello che non teme rivali, è ancora il fondatore di Tesla e SpaceX Musk, con 263.9 miliardi di dollari di patrimonio, poco meno del doppio di Adani).   

 

Gautam Adani è ricco soprattutto per un motivo: il carbone. La base del suo successo è  di essere diventato il più grande sviluppatore di centrali elettriche a carbone e di miniere di carbone. E’ del Gruppo Adani, per esempio, la controversa miniera Carmichael nel Queensland, in Australia, operativa da un anno e che gli ha creato non pochi danni d’immagine per i suoi frequenti scontri tra le autorità locali e gli attivisti per l’ambiente. Quella nel Queensland  è finita sui media internazionali, ma già in India il gruppo possiede o gestisce le più importanti e produttive miniere a carbone del paese. Non senza problemi: in estate la gigantesca miniera Parsa East e Kanta Basan – i cui effetti erano stati raccontati anche da un magnifico articolo sul New Yorker di Astha Rajvanshi, dal titolo “La miniera di carbone indiana che ha raso al suolo un villaggio e ha ridotto una foresta” – ha fermato parte delle sue operazioni. Il carbone è un problema, inquina più di ogni altra cosa, ma le miniere di carbone sono anche peggio. Ma nel frattempo il gruppo Adani ha anche altro a cui pensare. 

 

A luglio ha acquisito il porto di Haifa, in Israele,  il più grande dei tre principali porti marittimi internazionali del paese. L’ha fatto mettendoci 1,18 miliardi di dollari, il 55 per cento in più rispetto all’offerta concorrente, per via della strategicità dell’operazione: non significava soltanto aprire una porta sul Mediterraneo, la prima del colosso indiano, ma pure eliminare una possibile concorrenza cinese. Qualche mese prima, il gruppo Adani era entrato nel porto di Colombo, in Sri Lanka: un’altra operazione definita “strategica” per contrastare l’influenza cinese in alcuni paesi chiave dell’Asia del sud. La catastrofe economica che lo Sri Lanka ha vissuto negli ultimi mesi è iniziata quando la Cina finanziò la costruzione del porto di Hambantota (266 chilometri a sud di quello di Colombo) e l’influenza cinese ha iniziato ad aumentare sempre di più all’interno del paese nell’ambito della Via della Seta. Nel 2017 il governo dello Sri Lanka è stato costretto a cedere a Pechino il porto di Hambantota perché incapace di ripagare i debiti con la Cina. 

 

Il business del gruppo Adani è ormai pressoché in tutti i settori: droni, tecnologia, fotovoltaico, ferrovie, suo è anche l’aeroporto internazionale di Mumbai, e qualche settimana fa l’Adani Group ha lanciato una app integrata per acquistare voli e trasferimenti. Poco tempo prima, la divisione tech del gruppo aveva finalizzato un accordo con Uber per i trasferimenti da e per gli aeroporti, uno dei settori più redditizi del trasporto nell’area della capitale indiana. Si parla di una strategia ben precisa, che è quella di costruire una Super App di proprietà del gruppo Adani, sul modello di quella di Kakao in Corea del sud e WeChat in Cina: un sistema per gli smartphone che permetta di fare qualunque cosa dal telefono – ordinare una pizza, pagare le bollette, messaggiare, oltre che comprare i biglietti aerei e andare in aeroporto – il tutto grazie a un solo nome, quello di Gautam Adani. Si dice già da un po’ che qualunque cosa tu voglia fare in India una parte dei tuoi soldi andranno a lui. Eppure il suo nome, in Europa, è ancora poco conosciuto. Solo di recente la Total francese ha deciso di investire nella Adani New Industries per l’energia verde, e si discute parecchio dell’investimento che il colosso indiano vuole fare in Marocco: neanche un mese fa la ministra marocchina per la transizione energetica, Leila Benali, ha detto a Bloomberg che le autorità di Rabat stanno pensando di approvare entro il 2023 “almeno due progetti industriali competitivi” che riguardano la produzione di energia verde come l’idrogeno da esportare in Europa. L’operazione farebbe parte del tentativo del gruppo Adani di puntare almeno un po’ sulle rinnovabili, almeno all’estero.

 

Nelle ultime settimane si è tornato a parlare di lui: all’inizio di dicembre Adani ha aumentato la sua partecipazione nella New Delhi Television Ltd (Ndtv), diventando il maggiore azionista di una delle reti di notizie più popolari del paese. Secondo diversi esperti, Ndtv era rimasto tra i pochi media indiani indipendenti, senza un editore forte alle spalle, e l’operazione sembra particolarmente simile a un’altra avvenuta nel 2014, quando Mukesh Ambani, tycoon vicino al primo ministro indiano Narendra Modi, aveva acquisito la Network18, una delle più grandi società di media dell’India. Dopo l’acquisizione di Ndtv da parte di Adani, sono iniziate le polemiche, qualcuno tra i funzionari si è licenziato, e il milionario si è difeso parlando di una pura operazione di business. In un’intervista al Financial Times a fine novembre ha detto: “Perché non si può sostenere un media a diventare indipendente e avere un’immagine globale? Essere indipendenti significa che se il governo ha fatto qualcosa di sbagliato, tu dici che è sbagliato. Ma allo stesso tempo, dovresti avere coraggio di dire quando il governo fa la cosa giusta”.
Il 24 giugno scorso la Adani Corporate House, il quartier generale del colosso indiano, si preparava a un grande evento. A un certo punto della mattina, i quasi tremila dipendenti hanno tutti indossato una polo da cricket fatta apposta per l’occasione: bianca, con le strisce blu e rosse e un enorme 60 sulla schiena. E così, quando Gautam Adani è arrivato in ufficio, nel giorno del suo sessantesimo compleanno, si è trovato di fronte questa folla festosa nell’atrio del gigantesco edificio. Dall’alto sono scesi dei poster dov’era raffigurata la sua faccia – e i suoi baffi – a trenta, quaranta, e cinquant’anni, come a raccontare una storia: la leggenda del gruppo Adani, un pezzo importante del gigante indiano. Dagli altoparlanti è partita “Jai Ho”, una canzone in hindi da A.R. Rahman e Gulzar. Forse la ricorderete perché vinse un Oscar come miglior brano per il film del 2008 diretto da Danny Boyle, “The Millionaire”. E proprio da quel lungometraggio, forse, vale la pena partire per raccontare l’ascesa di un uomo che parla poco, si espone poco, non ha la fighezza dei grandi capitani d’industria della tecnologia americani. Nato il 24 giugno del 1962, Gautam Adani cresce ad Ahmedabad, la città più popolosa dello stato indiano del Gujarat, da una famiglia che si era trasferita lì da Tharad, una città a quaranta chilometri dal confine indiano con il Pakistan. Quell’identità è fondamentale per capire il suo stile imprenditoriale. E anche le sue connessioni – perché nessuno viene dal nulla e diventa il secondo uomo più ricco del mondo senza appoggi politici, specialmente in India. Il giovane Gautam cresce in una famiglia giainista, una minoranza religiosa indiana in un paese diviso tra hindu e musulmani, con sette fratelli, in un quartiere modesto. “Dopo aver ascoltato il consiglio di suo zio, l’adolescente Gautam decide di trasferirsi a Bombay (ora Mumbai) per inseguire i suoi sogni”, si legge nella sua biografia ufficiale uscita un paio di mesi fa, scritta dal giornalista indiano RN Bhaskar, “Gautam Adani. Reimagining Business in India and the World” (Penguin). A Mumbai andò a vivere con il fratello maggiore Vinodbhai, “un grossista di tessuti tagliati per Bipin Mills e Rajesh Mills, e decise di cimentarsi nel commercio di diamanti. Gautam avrebbe preferito abbracciare il modello ‘guadagna e impara’. Ma il destino aveva altri piani per lui”. Studia un paio di mesi in un college: “Andava ai mercati dei diamanti la mattina, imparava la selezione e la valutazione delle pietre, e poi andava al college. Ma nel suo tentativo di eccellere negli affari, trovava difficile seguire le lezioni”.

 

A sei mesi dall’inizio della sua vita universitaria, lasciò il college e diventò un commerciante di diamanti a tempo pieno. Lavorò così per tre anni, con discreto successo, fino a quando, nel 1981, suo fratello minore non gli chiese aiuto per gestire una piccola fabbrica di plastica che aveva acquistato nella città di famiglia,  Ahmedabad. Gautam Adani lasciò Mumbai, tornò a casa, prese in mano lentamente l’azienda. Sette anni dopo, nel 1988, capì il potenziale della liberalizzazione economica in India, e mise in piedi la Adani Enterprise. E’ da lì che ha creato il suo impero. I soldi, il potere. E anche la leggenda attorno alla sua figura di uomo silenzioso, “più impegnato ad ascoltare che a parlare”,  scrive RN Bhaskar, con una vita piuttosto movimentata. Il 1° gennaio del 1998, quando Adani era già piuttosto ricco, un motorino ha bloccato la sua auto e degli uomini armati hanno prelevato lui e l’amico e politico Shantilal Patel. Il rapimento era stato organizzato per soldi, e i due furono liberati dopo il pagamento del riscatto. Nel 2018 sono stati assolti gli unici due imputati per il rapimento.  Esattamente dieci anni dopo, il 26 novembre del 2008, Adani, ancora più ricco e potente, stava cenando al ristorante interno del leggendario hotel di Mumbai, il Taj Mahal Palace. Dal suo tavolo di fronte alla finestra vide i terroristi attaccare l’hotel prima degli altri. Il Taj Mahal Palace era uno degli obiettivi dell’attacco coordinato a Mumbai da parte degli islamisti. Grazie all’aiuto del personale riuscì a salvarsi, insieme a un centinaio di ospiti, prima nel seminterrato dell’hotel  e poi in una camera (c’è un film che racconta la vicenda, “Attacco a Mumbai”, uscito ne 2018 e diretto da Anthony Maras).

 

Adani fa parte di quella generazione di imprenditori che è cresciuta e ha prosperato nella globalizzazione come l’abbiamo conosciuta finora. Parla con tutti, fa affari con tutti. Ma parte della sua strategia è anche politica. Le ombre su di lui, quelle di cui si discute soprattutto in Asia, riguardano il suo rapporto con il potere, e in particolare con Narendra Modi, leader del Partito Popolare Indiano e primo ministro dal 2014, che sta portando avanti da anni un’agenda nazionalista in cui l’induismo e il populismo indù hanno reso il paese vicino all’estrema destra occidentale e all’islamofobia. Il successo di Adani e del suo gruppo ha accelerato enormemente dopo l’arrivo di Modi alla guida del governo centrale. Sono entrambi originari del Gujarat, e nel 2003, quando Modi era primo ministro dello stato, Adani, che era già uno degli esponenti dei gruppi industriali più influenti, lo sostenne.

 

Undici anni dopo, nel 2014, dopo aver vinto le elezioni, Modi volò dalla sua casa a Ahmedabad fino a Delhi a bordo di un jet privato di proprietà di Adani: un segno, un simbolo della vicinanza tra i due. Diversi analisti di questioni indiane dicono che in molte decisioni del gruppo Adani c’è un’agenda politica, cioè quella di Modi: per esempio, lo sbarco nel porto di Colombo, in Sri Lanka, in chiave anticinese, così come in quello di Haifa, e poi l’acquisizione della Ndtv – spesso particolarmente critica contro il governo. Il Rockfeller indiano, come l’ha definito il Financial Times, è allo stesso tempo un’opportunità per il gigante asiatico, soprattutto nella competizione strategica con la Cina, e di certo un ponte per l’immagine dell’India nel mondo. Ma secondo molti analisti rappresenta anche un rischio: il suo impero è rappresentato da un uomo solo al comando, e si regge  sugli introiti del carbone, un modello considerato obsoleto oggi; e poi, Gautam Adani non può sostituirsi al ministero dell’Economia, soprattutto non può continuare a contare sul supporto del primo ministro Modi. Le elezioni generali del 2024 sono dietro l’angolo, e la proiezione internazionale dell’India passa anche dal suo saper fare affari col resto del mondo. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.