il metodo di pechino

Manette e condanne. La lenta e paziente strategia cinese a Hong Kong

Giulia Pompili

La sentenza del processo nei confronti di sei personaggi di spicco della società civile dell'ex colonia e il nostro stato di perenne distrazione con Pechino

C’è una foto di ieri, scattata fuori dal tribunale di West Kowloon, a Hong Kong, che rappresenta in modo chiaro la strategia che Pechino applica da più di due anni nell’ex colonia inglese. E dice molto anche di ciò che succede nei paesi autoritari quando le democrazie con cui si rapportano a un certo punto si distraggono, cedono, decidono di sacrificare dei piccoli pezzi di libertà in virtù di un bene più grande, che però non arriva mai. Ieri, al tribunale di West Kowloon era attesa la sentenza del processo che va avanti da due mesi nei confronti di sei personaggi di spicco della società civile dell’ex colonia. Li hanno fotografati tutti insieme, gli imputati: il noto avvocato Margaret Ng, l’ex parlamentare Cyd Ho, l’accademico Hui Po-keung, la cantante e attivista Denise Ho, Sze Ching-wee e il novantacinquenne cardinale della chiesa cattolica Joseph Zen, con la croce al collo e il bastone a sostenerlo. Sono  i rappresentanti  di una società libera e critica, e sono stati tutti ritenuti colpevoli e condannati a una multa per avere messo in piedi, nel 2019, il fondo 612 Humanitarian Relief, che all’inizio delle proteste di massa per la legge sull’estradizione era servito a dare supporto legale a chi veniva incriminato dalle autorità.

 

I sei protagonisti della vicenda sono tutti in libertà su cauzione per un processo parallelo che deve ancora svolgersi: erano stati arrestati a maggio sulla base delle nuove regole retroattive della legge sulla Sicurezza nazionale imposta da Pechino a Hong Kong nel luglio del 2020, accusati di aver cospirato con “potenze straniere” per sovvertire l’ordine dell’ex colonia. Uscendo dal tribunale, il cardinale Zen ha detto ai giornalisti di “non dare troppa importanza” al suo ruolo religioso: “Sono qui come cittadino di Hong Kong che crede a questo lavoro umanitario”. Ma è impossibile non pensare al mondo cattolico che rappresenta e che lo ha sostanzialmente abbandonato. Due mesi fa, durante il viaggio di ritorno dal Kazakistan, Papa Francesco aveva detto ai giornalisti di “non poter qualificare la Cina come antidemocratica” e che “il cardinale Zen è un anziano, che dice quello che pensa”, ma che lui “non se la sente di qualificare. Cerco di appoggiare la via del dialogo”. E per dialogo intende soprattutto il mantenimento del negoziato con Pechino per implementare l’accordo provvisorio tra Repubblica popolare cinese e Santa Sede sulle nomine dei vescovi cinesi, firmato nel settembre del 2018 e rinnovato lo scorso ottobre. 

 

Martedì scorso sei dipendenti dell’Apple Daily, il giornale pro democrazia chiuso dalle autorità a giugno 2021 perché violava la legge sulla Sicurezza, quasi tutti giornalisti di punta del quotidiano, si sono dichiarati colpevoli di aver cospirato con l’editore Jimmy Lai “per chiedere a potenze straniere di intervenire con sanzioni o blocchi contro Pechino dopo l’introduzione della legge sulla Sicurezza a Hong Kong”. La pena massima per questo tipo di reati oggi, con la legge in vigore, è l’ergastolo. Secondo diversi osservatori, i dipendenti del quotidiano si sarebbero dichiarati colpevoli per evitare la pena massima. E il prossimo primo dicembre si aprirà un altro processo molto importante, quello contro Jimmy Lai, l’imprenditore proprietario dell’Apple Daily che si trova in carcere dal dicembre del 2020. 

 

C’è stato un tempo in cui la Cina, per gli arresti e le condanne eccellenti, aspettava le vacanze di Natale e di Capodanno: era il periodo in cui alcune notizie sfuggivano all’attenzione internazionale. Adesso a Hong Kong – e non solo a Hong Kong, ma anche nella Cina continentale – tutto è sotto i nostri occhi, ed è l’occidente a essere in uno stato di perenne distrazione con Pechino, in negazione a causa di vicende più urgenti. Se c’è una lezione che si può imparare è che quando un segnale è sufficientemente chiaro, come la presa di Hong Kong nel 2020, bisognerebbe coglierlo e trattare con le autorità di Pechino di conseguenza.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.