Ispezioni a sinistra

Quali sono le nuove facce che i dem americani potrebbero schierare in vista del 2024?

Stefano Pistolini

A Ocasio-Cortez manca ancora l’aplomb, Buttigieg è di gusto troppo radical. Una galleria postelettorale in previsione del prossimo voto 

La frattura non si è saldata. L’America rimane un’anguria spaccata da un colpo di machete e le due metà continuano ad avere grosso modo lo stesso peso. Situazione a dir poco enigmatica, per avviarsi a un processo di elezione presidenziale avvolto da una drammaturgia a tinte fosche, garantita dalla partecipazione alla corsa di Donald Trump, l’uomo che ha sconvolto l’equilibrio psichico nazionale e continua a scuoterlo col suo travolgente approccio illogico, lo stesso che ha avuto la potenza di rivelare una nazione psicologicamente ben meno equilibrata di quanto si credesse. Certo, il percorso di Trump è disseminato di ostacoli alti, a cominciare da un contendente ormai temibilissimo come Ron DeSantis, trionfatore nella corsa a governatore della Florida, uomo che sa come normalizzare e rendere presentabile un approccio altrettanto anticonvenzionale come quello trumpiano. O come i giudici di diverse corti federali e statali, che convocheranno periodicamente il cittadino Trump a rispondere della costellazione di irregolarità di cui ha disseminato il proprio cammino di businessman e di politico. E infine, dovesse arrivare alla nomination grazie alla strategia con la quale ha depotenziato i detrattori interni al partito repubblicano e ha sostenuto i fedelissimi, spesso fino alla vittoria o alla riconferma, Trump dovrà tornare a confrontarsi con l’idea contrapposta, quella che lo ha demonizzato ma che lui ha sconfitto nel 2016 nella versione Hillary Clinton e da cui non ha mai accettato di essere stato battuto nella persona del veterano Biden.

 

Qui prende forma la domanda chiave: cosa c’è nelle trincee a lui contrapposte, che possa contenere e ricacciare colui che ormai è un moloch del contemporaneo, una figura totemica che si sta elevando oltre la reale statura del personaggio per come incarna e sostanzializza ciò che potremmo semplicemente definire il grande scontento dell’Unione? L’America progressista, sia nella sua tranquilla declinazione centrista che nella spericolata e improbabile versione ultra-liberal, quali figure “eroiche” può schierare in questa imminente Iliade del nuovo mondo, quali campioni degni del confronto col grande villain o coi suoi epigoni, quali rappresentanti abbastanza intensi da convincere il paese a seguire la strada della saggezza, anziché dell’animosità? Un dato certo è il gap generazionale: l’andamento nel complesso più che discreto del voto di midterm per i democratici, lo stop messo all’annunciata valanga rossa, in buona parte va ascritto alla discesa in campo, col passare dei giorni più incisiva, dei vecchi maestri, da Clinton a Obama in particolare, che hanno contribuito a spingere al voto gli indecisi che si sarebbero volentieri astenuti, nonché a sostenere la gracile idea di ritrovata democrazia interpretata dalla Casa Bianca di Joe Biden. Lo stesso presidente in carica ha lavorato degnamente alla causa, spendendosi col suo stile intermittente e spesso poco penetrante, riuscendo ripetutamente a imporre il peso del buonsenso che continua a incarnare, insieme all’esperienza, unico altro dato esemplare del suo mandato.

 

Con loro, altrettanto, ha contribuito la suggestione delle innumerevoli celebrities extra politiche che, parlando da più vari settori dell’arte e dello spettacolo, hanno toccato le corde giuste per convincere gli americani che votare non è un’opzione trascurabile ma un indispensabile dovere partecipativo. Un’osservazione che introduce nel discorso un altro fattore rilevante: la destra americana ormai da tempo riesce a proporre all’elettorato una galleria di personaggi forti, sovente pescati in contesti extra politici e ad alto tasso di popolarità, la televisione in testa (i casi dello sconfitto Ehmet Oz in Pennsylvania e della vincente Kari Lake in Arizona sono solo gli ultimi esempi). Una politica della iper comunicazione superficiale che ben s’attaglia all’America posttrumpiana e alla descrizione di una nazione divisa. Invece quasi niente di paragonabile sull’altro fronte, dove i personaggi a discreto tasso di credibilità invariabilmente appartengono al serbatoio della politica professionale. A questo punto, dal momento che pare sempre più probabile che Joe Biden, correrà per il secondo mandato alle prossime presidenziali (lo ha rivelato il ben informato reverendo Al Sharpton dopo un incontro personale e lo ha confermato il suo ufficio stampa), resta il fatto che il 5 novembre del 2024 il presidente in carica sarà a pochi giorni dall’82esimo compleanno,  fattore che non incoraggerà gli aventi diritto a concedergli una seconda delega a governare e che verrà usato contro di lui dagli avversari manifesti e dagli scettici del suo stesso partito. Ma una candidatura democratica alternativa, per non essere brutalmente scomunicata dai maggiorenti del partito, deve possedere un’energia vincente e un patrimonio carismatico che ora non è alle viste. La rassegna dei potenziali contender per la nomination democratica non è elettrizzante e comunque, se il ragionamento poggia sugli attuali dati di approvazione della performance di Biden come presidente – bassissimi, addirittura al 26 percento tra gli stessi elettori democratici –, qualsiasi analista conferma che i numeri cambierebbero drammaticamente in positivo non appena gli inquietanti dati sull’inflazione cominciassero a migliorare.

 

Peraltro, affrontare una campagna presidenziale rappresenta uno sforzo finanziario e organizzativo monumentale, a cui non possono essere ascritte figure pure popolari nell’area più liberal del partito, come Stacey Abrams (appena sconfitta in Georgia da Brian Kemp per la poltrona di governatore), o come Beto O’Rourke, battuto nettamente dal Rep Greg Abbott per la stessa carica, nonostante il successo tra l’elettorato latino delle contee di frontiere, o ancora come la star momentanea John Fetterman, neo-senatore street style, che in Pennsylvania ha catalizzato le simpatie dell’elettorato blue collar.  I grandi finanziatori, a cominciare da quelli della Silicon Valley, investirebbero su figure dotate di un ben diverso fattore di presidenzialità, tanto più alla luce dello scandaloso scisma anti Biden che si provocherebbe. E’ accertato che le elezioni americane moderne si vincono mobilitando la base e nel 2024 il fattore determinante in questa direzione sarà il sentimento anti Trump (o anti DeSantis) e la fiducia in una personalità più robusta di quella tiepida di Biden. Vanno quindi accantonati nomi come Alexandria Ocasio-Cortez la deputata newyorkese che ha poca simpatia per il presidente in carica, ma non ha, ancora, l’aplomb necessario e la credibilità al di fuori delle metropoli della east coast. Non sono ipotizzabili candidature di figure di gusto radical come l’appena confermato governatore della California Gavin Newsom (l’America non è pronta a mandare alla Casa Bianca un ex sindaco di San Francisco), o l’attuale ministro dei Trasporti Pete Buttigieg, sebbene entrambi ben attrezzati e sofisticati dal punto di vista comunicativo, perfino al punto da incarnare un’idea americana che oggi non corrisponde più alla realtà. Vanno scartate le ipotesi di candidature di veterani fin troppo spesi come Bernie Sanders e Elisabeth Warren, mentre trovano collocazione solo nell’ambito della squadra-Biden sia la sua vice Kamala Harris, che la popolare senatrice del Minnesota Amy Klobuchar, che del presidente è ardente sostenitrice. Peraltro, a oggi, il presidente in carica appoggerebbe una rinnovata candidatura su dati piuttosto incoraggianti, come quelli secondo i quali nel confronto diretto con Trump le cifre gli darebbero ragione, sebbene gli stessi sondaggi evidenzino poi lo scarso entusiasmo dell’elettorato democratico nel vedersi nuovamente rappresentati da Biden. Eppure, almeno un paio di nomi da esplorare con attenzione a sinistra ci sarebbero.

 

Ad esempio l’appena confermato governatore dell’Illinois J.B. Pritzker, erede miliardario dell’impero alberghiero Hyatt, un faraone chicagoense che a più riprese si è dichiarato perplesso di fronte allo stato di prostrazione che permea l’attuale partito democratico, condizione della quale Biden sarebbe l’espressione, e lui l’antidoto. O un altro collega governatore, anch’egli fresco di rielezione come Jared Polis del Colorado, anch’egli attrezzato con ricchi fondi personali, per quanto fin qui si sia sempre espresso in termini politici circoscritti al futuro del suo stato, con scarsa propensione agli orizzonti nazionali. Perfino più considerabile, allora, la figura di Gretchen Whitmer, anche lei governatrice rieletta alla guida dello stato del Michigan, sostenitrice tiepida della presidenza Biden, figura femminile prestigiosa e incisiva ai tavoli delle trattative, ma difficilmente disposta a vestire i panni della sovversiva di fronte a una candidatura-Biden da parte dei maggiorenti del partito. In ogni caso, la superannunciata battaglia per difendere la minacciata democrazia americana per ora sembra destinata a essere affidata al suo attuale, vetusto comandante in capo e alla sua scricchiolante struttura di supporter. La prospettiva è quella di un turno soft di primarie, niente di paragonabile, a quanto accadde, ad esempio, a Lyndon Johnson alle prese col rampante Eugene McCarthy.

 

L’idea di indebolire Biden con una guerra interna al partito, quando la sua concentrazione dovrebbe essere tutta dedicata a contenere Trump, sarebbe un “omicidio-suicidio”, nella definizione che ne ha dato quel Joe Trippi che fu accanto a Ted Kennedy nella sfida del 1980. Le ipotesi alternative, ovvero il volontario passaggio di consegne da parte dello stesso Biden, o addirittura lo sguardo lungo sulle prospettive-2028, indicano soprattutto la carenza di personalità capaci di coinvolgere, convincere e trascinare un elettorato sempre più capriccioso e imprevedibile. Probabile a questo punto attendersi una lunga fase di osservazione e posizionamento, senza precipitose discese in campo e nell’attesa delle mosse del presidente in carica. Il nemico da battere, ha nome e cognome, sia quello di Trump o di DeSantis. Il processo evolutivo tra i democratici, invece, è in considerevole ritardo: “Abbiamo bisogno di diventare più intensi nella condanna della destra e di ciò che rappresenta, e nella difesa delle libertà, a cominciare da quella delle donne e degli emarginati”, ha appena detto Pritzker, insinuando poi: “C’è un palpabile cambio di atteggiamento tra i democratici”. Se così è, sono tutti da verificare i relativi effetti e risultati. Che il partito sia in profonda crisi identitaria, invece, è praticamente una certezza.