(foto AP)

Quella fra lo sciuscià Lula e il “Trump tropicale” Bolsonaro era una sfida fra democrazia e autocrazia

Adriano Sofri

Mujica ha detto che in Brasile era in ballo più di un confronto fra destra e sinistra. E con il presidente uscente escono sconfitti anche The Donald e Putin

C’è una vicenda umana, e una politica. Si possono distinguere? No, direte. Ma come no! Fin dal nome che si è scelto, Lula (il calamaro, due sillabe da ritornello), il presidente eletto dei 215 milioni di brasiliani si porta dietro una storia favolosa. Una delle immagini ricorrenti della campagna ha la sua mano sinistra, quella con la fede, aperta sopra la bandiera verdeoro. La mano ha quattro dita, le manca il mignolo, tagliato via da un incidente sul lavoro. Il capitano della riserva, razzista e ammiratore di golpisti, Jair Bolsonaro, non ha mancato di farne un insulto: “Nove-dita!”. Aveva di fronte uno che non aveva finito le elementari, aveva fatto lo sciuscià da marciapiede, poi l’operaio, poi, per due volte, con quel ricordo da metalmeccanico tornitore, il presidente della Repubblica. Un romanzo come pochi. Ma dalla fine del secondo mandato, nel 2011, sono trascorsi undici anni, e ora Lula è vecchio di 77 anni, nel ’26 ne avrà 81, fu mandato in galera da una magistratura dipietrista, la sua erede, Dilma, fu liquidata da un impeachment, era in una cella quando morì la sua seconda moglie, è sopravvissuto al cancro, si è innamorato e risposato, è il presidente della Repubblica con il maggior numero di voti della storia del Brasile. 

Ieri ha parlato “usando toni da conte di Montecristo”, ha scritto qui Stefanini. E’ vero, Alexandre Dumas ci troverebbe troppa grazia. Ha usato perfino toni da Cristo, un Cristo anziano e umorista, tanto per compensare la mobilitazione dell’evangelismo neopentecostale cui il fanatismo di Bolsonaro si era affidato. “Mi considero un cittadino che è passato attraverso un processo di resurrezione. Hanno cercato di seppellirmi vivo ma sono risuscitato”. Lui ci ha messo di più: dopo 580 giorni di galera. Deve stare in guardia d’ora in poi: rovesciare il risultato del voto è impossibile dopo Capitol Hill, e poi l’intero mondo si è affrettato a riconoscerlo, ma la tentazione di comprare un cecchino per far fuori Lula dev’essere forte – darebbe una maiuscola alla sua passione, ma le impedirebbe di mettersi alla prova con la saggezza nuova, ora che non deve badare alla carriera ma al ricordo che lascerà nel cuore degli sciuscià che i dieci anni li hanno adesso. E nel cuore dei 33 milioni di veri affamati che conta oggi il Brasile, cui ha promesso di risuscitare la sua lotta alla fame. Ha avuto accanto per tutti gli ultimi giorni della campagna un altro che quel ricordo nei cuori se l’è già assicurato, nel suo paese e anche fuori: José Pepe Mujica, 87 anni, che in galera c’era stato per 12 anni, e aveva imparato lo stile di vita cui si attenne da presidente e dopo. Mujica ha spiegato che l’elezione brasiliana non opponeva la destra alla sinistra, ma l’autocrazia alla democrazia. Viene voglia di azzardare che le due cose coincidono, ma si farebbero alzare in volo stormi di uccelli neri. 

 

Ora la politica. Bolsonaro, coi suoi record di deforestazione e di morti ammazzati di Covid (690 mila) aveva controfigurato l’ascesa di Donald Trump e si era meritato il sostegno di un intenditore come Steve Bannon, la cui squadra si era installata a San Paolo. Anche di Neymar, che aveva fatto voto di dedicargli il primo gol in Qatar: speriamo che non segni, inshallah. La sconfitta di Bolsonaro (non vi gingillate troppo sul fatto che è stata di misura, poco più di due milioni di voti, Trump aveva vinto con milioni di voti in meno, e se ci sono stati imbrogli nel voto brasiliano, sono stati suoi) ha segnato la sconfitta di Trump e della sua gang. Bolsonaro e Trump sono i quasi soli a non aver rivinto al secondo mandato. Forse non avrà alcun peso nelle midterm dell’8 novembre, ma è comunque una gran buona notizia per i democratici. E’ vero che il vecchio mondo ha bisogno di ridisegnare i suoi equilibri: l’America latina sta cambiando rapidamente volto, e può darsi che i successi della sinistra – in 6 elezioni su 11, e sono ora progressiste le cinque maggiori economie – vogliano dire solo che a vincere sono le opposizioni – è successo 10 volte su 11.

Ma quest’America latina rianimata è una grande occasione della democrazia contro l’autocrazia, per tornare al punto. Lula è restato affezionato ai Brics, di cui fu cofondatore, e vorrà tornarci, magari includendo l’Argentina kirchnerista che gli è devota. Ma i Brics non hanno un destino segnato. E siccome la contesa fra democrazia e autocrazia non si esaurisce in quella fra occidente e oriente – e l’America latina ne è una prova gigantesca – il Bolsonaro sconfitto era contemporaneamente “il Trump tropicale” e un alleato stretto di Putin. Aveva intimato all’Ucraina di riconoscere la sconfitta e arrendersi. Era ostile alle sanzioni e soprattutto fautore della civiltà di “Dio patria e famiglia” (proprio così, era il suo motto, con aggiunto il quarto sostantivo, e libertà: già sentito, eh?). Lula, della cui vittoria si sarà compiaciuto, almeno quanto me, il Papa Francesco, ha preso sull’Ucraina una posizione malvista dal governo ucraino e mediocre – mediatrice, per i più ottimisti. Zelensky, disse in maggio, è colpevole quanto Putin, e ha troppo voluto la guerra. Ha detto cose molto simpatiche, verosimili o no che le si ritenga: bisognava negoziare, come a un tavolo di birreria, con un giro di bicchieri, e poi un altro giro, e poi altri ancora fino ad arrivare a una conclusione. Un’illusione, credo, ma Lula non è un alleato di Putin. Che possa cimentarsi davvero come mediatore, senza rischiare l’ubriachezza, chissà.

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