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amburgo tra pechino e l'europa

Il gran guaio dei soldi cinesi. Il caso Scholz costringe l'Ue a domande complicate

Claudio Cerasa

Tornare a parlare con la Cina, senza farsi condizionare, o chiuderla nel suo angolo di mondo? Il caso del porto di Amburgo, con l’arrivo dei cinesi, isola Scholz ma costringe l’Ue a porsi domande importanti. Risposte non scontate 

In questa storia c’è tutto. C’è il futuro dell’Europa. C’è il futuro della Germania. C’è il futuro della globalizzazione. C’è l’equilibrio futuro tra democrazie liberali e regimi autoritari. C’è il futuro delle relazioni con la Francia e con l’Italia. E c’è il futuro dei rapporti incrociati tra il modello tedesco, il modello europeo, il modello cinese. La storia è quella che forse conoscete ed è una storia che nelle ultime settimane ha diviso in modo traumatico la politica tedesca. Vale la pena sintetizzarla per capire di cosa stiamo parlando. Due giorni fa, il governo tedesco, guidato dal cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, ha autorizzato la vendita di uno spicchio del porto di Amburgo, uno dei porti più importanti d’Europa. Il governo tedesco ha concordato un “compromesso” che consentirà nei prossimi giorni alla compagnia statale cinese di spedizioni Cosco di acquisire una partecipazione del 24,9 per cento del porto di Amburgo dalla società tedesca Hhla (Hamburger Hafen und Logistik AG).

 

Il tema dell’ingresso di una grande società cinese nella proprietà del maggior porto tedesco (il secondo dopo Rotterdam in Europa) ha movimentato il dibattito pubblico della Germania e ha creato una robusta contrapposizione nel governo Scholz. Cosco è la quarta compagnia di spedizione di container al mondo, detiene già il cento per cento del porto del Pireo in Grecia, il 90 per cento del porto del Zeebrugge in Belgio, il 51 per cento del porto di Valencia in Spagna, il 40 per cento del porto di Bilbao in Spagna, il 20 per cento del porto di Anversa in Belgio, il 40 per cento del porto di Vado Ligure in Italia, il 26 per cento del porto di Istanbul in Turchia e il 17,85 per cento del porto di Rotterdam, le sue navi fanno scalo ai terminal di Amburgo da 40 anni ma la presenza dello stato cinese nei porti europei pone da anni, ancor prima dell’ambiguità mostrata dalla Cina sulla Russia sul fronte della guerra in Ucraina, un dilemma ben preciso: che fare con i soldi cinesi? E, nello specifico, che fare con i cinesi che si avvicinano alle infrastrutture europee? E, per essere più chiari, come rispondere alla domanda se una maggiore presenza della Cina nei nostri paesi, nel nostro continente, sia un’opportunità utile per rafforzare la globalizzazione o sia una trappola micidiale capace di trasformare i paesi beneficiari degli investimenti in ostaggi dei regimi sanguinari, costretti a chiudere gli occhi di fronte alle efferatezze cinesi pur di non perdere i flussi generati dagli investimenti dello stesso paese?

 

In Germania, ragionando attorno a questo tema, e a questo problema, sei ministri hanno espresso contrarietà all’operazione. Una nota del ministero degli Esteri, ministero guidato da Annalena Baerbock, leader dei Verdi, ha avvertito che un investimento della cinese Cosco in un terminal del porto di Amburgo avrebbe aumentato in modo sproporzionato la dipendenza della Germania dalla Cina, avrebbe messo in pericolo il successo dei progetti di trasporto europei e avrebbe espanso “in modo sproporzionato l’influenza strategica della Cina sulle infrastrutture di trasporto tedesche ed europee”. Lo stesso tono ha utilizzato il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier secondo cui la Germania dovrebbe “imparare le lezioni della storia e dovrebbe per questo ridurre le dipendenze unilaterali ove possibile, e questo vale in particolare per la Cina”. Negli stessi giorni, poi, il capo dell’agenzia di intelligence interna tedesca, Thomas Haldenwang, in un’audizione parlamentare ha affermato che “la potenza finanziaria della Cina potrebbe diventare un rischio per la Germania, in particolare a causa dei forti legami economici e scientifici tra i due paesi” e ha fatto un confronto con l’attuale turbolenza geopolitica della guerra in Ucraina, sostenendo che “la Russia è la tempesta, la Cina è il cambiamento climatico”.

 

E qualche giorno prima, il 21 ottobre, il Consiglio europeo aveva scelto di affrontare il tema, senza parlare del porto di Amburgo ma mettendo a fuoco la questione in modo chiaro, sottolineando la presenza di una “accelerazione di tendenze e tensioni” nella crescente rivalità sistemica con la Cina, e la necessità prioritaria “di diversificare l’approvvigionamento di materie prime verso fornitori affidabili e degni di fiducia”. In un clima di grande unità europea contro la minaccia cinese, il caso Scholz, dunque, è destinato a diventare un nuovo banco di prova per misurare quanto, in questa fase storica, la Germania voglia fare da sola, voglia muoversi autonomamente, anche sul terreno dei rapporti con la Cina.

 

Le condizioni tedesche sono diverse da quelle di molti altri paesi europei, naturalmente, come erano diverse le condizioni della Germania nei rapporti con la Russia, essendo il paese guidato da Scholz un paese senza gasdotti che ha costruito buona parte del suo sistema economico sulla base di un rapporto conveniente costruito con la Russia sul terreno del gas, e sono differenti al punto che l’interdipendenza tra la Germania e la Cina, secondo uno studio presentato la scorsa settimana dall’Institute for Economic Research di Monaco, fa sì che “quasi la metà di tutte le aziende tedesche nel settore manifatturiero dipende attualmente da importanti ‘servizi a monte’ della Cina e che la chiusura dei rapporti con la Cina per la Germania avrebbe  un impatto sei volte superiore a quello avuto dalla Brexit per il Regno Unito”. E’ per questo che Scholz, la prossima settimana, andrà a far visita a Xi Jinping, a Pechino, dal 3 al 4 novembre, primo leader occidentale a incontrare Xi dall’inizio della pandemia. E’ per questo che Scholz, in queste ore, sta addirittura valutando di approvare l’acquisizione da parte della Cina della società produttrice di chip Elmos con sede a Dortmund, nonostante l’Unione europea abbia acceso più volte il faro sulla necessità da parte dei paesi membri di ridurre la dipendenza dai semiconduttori cinesi e di rafforzare i rapporti con Taiwan che produce il 90 per cento dei semiconduttori che arrivano in Europa (la Commissione europea, contraria alla presenza dei cinesi al porto di Amburgo, nel corso del 2022 ha identificato 137 prodotti essenziali per l’economia europea che devono essere importati da altri paesi, arrivando metà di essi dalla Cina). Il rapporto tossico con la Russia coltivato dalla Germania ha smentito una premessa della Ostpolitik tedesca secondo cui l’integrazione economica con le non-democrazie poteva promuovere la pace, l’apertura sociale e il cambiamento democratico. Ma di fronte a una nuova possibile ondata di investimenti cinesi in Europa la domanda che le democrazie sane dovrebbero porsi non è se firmare o no nuovi ridicoli e invasivi memorandum con la Cina, come fatto dal governo gialloverde, ma è chiedersi se sia o no una buona idea provare a usare ancora la globalizzazione per fare riavvicinare la Cina all’occidente utilizzando gli accordi commerciali anche per evitare che il famoso friendshoring, l’idea cioè che le democrazie debbano compiere uno sforzo per costruire le catene di approvvigionamento solo con paesi simili, crei un canale di incomunicabilità tra giganti che non possono non parlarsi e avvicini tra loro in modo patologico tutte le grandi non democrazie del mondo. Tornare a parlare con la Cina, senza farsi condizionare dalla Cina, o chiudere la Cina nel suo angolo di mondo, accettando di chiudere i ponti con un paese che dal 2020 è il primo partner commerciale dell’Unione europea? Si scrive Amburgo, si legge Europa. E il futuro dell’Unione, in fondo, passa anche dalla risposta a questa domanda.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.