Gli influencer di Xi Jinping

Giulia Pompili

La propaganda di Pechino sfrutta le minoranze perseguitate per fare video “amorevoli” su YouTube 

“Non c’è un processo di schiacciamento delle minoranze in Cina, c’è sempre stata una valorizzazione, storicamente! Ed è tuttora visibile!”, diceva uno youtuber italiano poco più di un anno fa sul suo canale. Lo stesso youtuber – di cui non facciamo il nome perché non ha rilevanza pubblica – ha dedicato alla questione della repressione degli uiguri e delle minoranze nello Xinjiang parecchi video. E poi naturalmente ha parlato pure di Hong Kong, di Taiwan, ha fatto perfino un “processo alla Cina”. Il risultato dei video è sempre lo stesso: a parlar male della Cina è “la propaganda a stelle e strisce”, in realtà non c’è niente di vero in quello che scrivono i giornalisti mainstream. Gli youtuber italiani che fanno la cosiddetta “controinformazione” sulla politica di Pechino sono pochi, ma sono abbastanza riconoscibili. C’è perfino un ex sottosegretario di un ministero italiano che ha un canale youtube dove, tra le altre cose, carica video sui suoi viaggi in Xinjiang, “tra tradizione e passione”, dove tutti sono sorridenti, soprattutto lui. Dal 24 febbraio in poi molti di quei comunicatori online si sono occupati pure della guerra della Russia contro l’Ucraina, usando sempre le medesime parole chiave: guerra per procura, destabilizzazione occidentale, profitto americano. 
Da tempo si parla del reclutamento, da parte di Pechino, di comunicatori online stranieri che fanno da megafono alla propaganda. Seguono pedissequamente un canovaccio che si ritrova, identico, sui media ufficiali cinesi. Periodicamente si occupano tutti della stessa cosa – per esempio, quando le Nazioni Unite hanno pubblicato il famoso rapporto sulle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, il 1° settembre scorso, gli youtuber hanno amplificato il messaggio di Pechino.

 

Messaggio che riassunto era: tutte balle, l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani mente, prende soldi dall’America, l’occidente usa i diritti umani come uno “strumento politico”. Quando è crollato il sistema della politica  Zero Covid a Shanghai, youtuber e profili twitter si sono concentrati sul magnificare la sicurezza offerta dalla Cina sulla pandemia. Ma per diffondere la voce del Partito all’estero a volte non bastano i volti occidentali, che sono forse meno credibili – o meno disposti a mentire – e quindi l’investimento più grande che la leadership ha messo in campo di recente riguarda gli youtuber cinesi. 


Un nuovo studio condotto da Fergus Ryan, Daria Impiombato e Hsi-Ting Pai e pubblicato dall’Australian strategic policy institute, uno dei think tank più importanti per quanto riguarda gli affari cinesi, svela i rapporti tra quelli che potrebbero sembrare semplici cittadini cinesi che usano internet per nazionalismo e veri dipendenti della propaganda. Il primo dato che va considerato, secondo il rapporto, è che in Cina non c’è tolleranza per  chi usa social network come YouTube, Facebook e Twitter e viene da regioni sensibili per Pechino come il Tibet e lo Xinjiang. Prima delle Olimpiadi di Pechino del 2008 certi siti web “erano ancora accessibili dalla Cina, anche se con alcune restrizioni, ma intorno al  2008 la censura interna è aumentata notevolmente e molti siti sono stati completamente bloccati”. Più di dieci anni dopo la situazione è peggiorata: la censura cinese si aggira con la Vpn, l’applicazione che fa risultare lo smartphone altrove e non dentro i confini cinesi, ed è proprio per questo che “le piattaforme di social media straniere sono monitorate dalle autorità cinesi”. Il sistema è noto, e molte persone appartenenti a minoranze etniche e religiose vengono arrestate per “pre-crimini informatici”, cioè per aver istallato sul proprio telefono app straniere o Vpn. Tutto questo è ovviamente consentito agli altri: quelli che parlano bene della Cina, che servono alla propaganda. 


E’ un fenomeno piuttosto recente. Lo studio dell’Aspi prende a esempio l’account Annie Guli, una giovane donna uigura di nome Guli Abdushukur che mostra la sua vita quotidiana all’interno di una famiglia kazaka dello Xinjiang. Guli ha 154 mila follower su una piattaforma bloccata nel suo paese. Parla di attualità, si fa invitare alle discussioni online con giornalisti stranieri, è il volto della campagna per rendere “amorevole” la propaganda esterna della Cina. I media statali non hanno lo stesso appeal di una giovane donna che sembra molto spontanea nei suoi video. E’ per questo che YouTube è diventato un asset della comunicazione del Partito comunista cinese. Secondo i dati del governo, a gennaio 2022 “i primi 30 canali YouTube dei singoli influencer cinesi avevano un totale di 74 milioni di follower, rappresentando il 44,88 per cento del numero totale di fan dei primi 100 canali cinesi” con ovvie conseguenze sull’impatto dei singoli influencer rispetto ad altri format. E infatti nel 2021 qualcosa cambia pure nel profilo di Guli. Viene affiancata da un’altra donna, che dice di essere sua sorella, e insieme portano i suoi profili sui social network occidentali a un altro livello. Diventano parte attiva del sistema di disinformazione e propaganda di Pechino – Twitter ha bloccato l’account @XinjiangGuli a maggio del 2021.


La leadership di Xi Jinping, che dopo il Congresso del Partito che si sta celebrando in questi giorni otterrà un terzo inedito mandato, sta portando la disinformazione e l’influenza sulla narrazione internazionale a un livello mai visto prima, sfruttando la tecnologia e le nostre stesse debolezze. Sfrutta non solo la sua  grancassa mediatica, ormai sempre più piegata alla volontà della leadership, e gli influencer stranieri, ma pure le minoranze etniche perseguitate, facendo leva sulla nostra curiosità di esotismo e di verità alternative, nel tentativo di chiudere gli occhi su una verità molto più dolorosa.
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.