Superpotenze che non lo sono

Quando è più pericolosa un'autocrazia? Il caso cinese

Giorgio Arfaras

L’economia cinese dovrà risolvere problemi intricati: quelli demografici sono i più semplici da osservare, ma ce ne sono di più complessi, di natura economica, legati all’eccesso di debito e alla crescita richiesta per ripagarlo

Da qualche tempo non si pensa più, come accadeva trent’anni fa, che, a seguito della vittoria sul comunismo, la “storia sia finita”. Non solo non si intravvede un mondo di sole democrazie e di mercati, ma si teme che possa formarsi l’“asse delle autocrazie”, come combinazione di Cina, Russia, Iran, Turchia, e forse India. L’impatto della contrapposizione oltre che politico sarebbe economico. La globalizzazione da qualche tempo sta frenando come interscambio industriale, ma è ancora vivace come interscambio di servizi. Quel si teme, o ci si augura, è un mutamento di direzione. Si avrebbe così l’uscita degli investimenti occidentali dai paesi non affidabili, con l’approdo in quelli affini. Il processo ha già un nome: friendshoring.

 

L’asse delle autocrazie avrebbe come epicentro la Cina. Una narrazione diffusa prevede fra qualche anno il sorpasso cinese degli Stati Uniti. Il sorpasso avviene per l’effetto del maggior tasso di crescita cinese, che è stato, fino a non molto tempo fa, molto elevato. Nelle previsioni lo si riduce, ma lo si mantiene maggiore di quello statunitense. Alla lunga, un tasso (una variazione del pil) maggiore non può non generare un livello finale (del pil) maggiore. Ed ecco il sorpasso. Il percorso che porta al sorpasso riesuma la “trappola di Tucidide”, dove la potenza dominante (all’epoca Sparta, potenza tellurica) non può non contrastare quella emergente (all’epoca Atene, potenza talassica). Nel nostro caso si ha un’inversione, la potenza tellurica (la Cina) contrasta quella talassica (gli Stati Uniti). Si ha questa contrapposizione non solo perché così, grazie alla potenza della Cina, l’“Asia torna agli asiatici”, ma anche come predominio cinese nei paesi che sono lungo la “via della Seta”, nonché in Africa. La guerra, per chi segue la logica del contrasto inevitabile fra potenze, arriverà alla fine dell’espansione economica cinese, quando questa sarà diventata, sempre che riesca a mantenere un tasso di crescita elevato, maggiore di quella statunitense, quindi fra qualche tempo, o prima? E se ci  fosse guerra, la si avrebbe per iniziativa statunitense, o cinese? Nessuno, come ovvio, lo sa. Si potrebbe persino non avere alcuna guerra.

 

Fra chi studia i contrasti che possono portare come non portare alla guerra esiste una linea di pensiero che per ora è originale. Osserviamo la dinamica demografica cinese. Nel 2000 in Cina si avevano dieci persone che lavoravano per ogni persona pensionata. Nel 2050 si avranno due persone che lavorano per ogni pensionato. La spesa per offrire una vita decorosa agli anziani (pensioni, sanità) passerebbe dal 10 per cento del pil di oggi al 30 per cento. Si noti, per confronto, che la spesa pubblica cinese complessiva è oggi del 30 per cento. La Cina dovrà perciò trovare le risorse per gli anziani intanto che si ribalta la demografia e quindi frena il suo tasso di crescita. Saranno, infatti, 200 milioni le persone che usciranno dal mercato del lavoro che non saranno sostituibili, perché la popolazione in età di lavoro si ridurrà della stessa entità, mentre 200 milioni di persone andranno in pensione. La popolazione cinese è stata spinta dal potere politico verso l’esplosione negli anni Sessanta e Settanta per contrastare la decimazione sorta per la guerra e le carestie. La popolazione, dopo qualche decennio, è quasi raddoppiata. Si aveva così un gran numero di giovani e pochi anziani. Poi per frenare la troppa popolazione è stata imposta la politica “del figlio unico”. E così si è avuto il ribaltamento: la popolazione ha intrapreso un percorso di contrazione progressiva. Alla fine, la demografia cinese è un vincolo maggiore alla sua crescita economica.

 

L’economia cinese dovrà risolvere dei problemi intricati, dove quelli demografici sono i più semplici da osservare, ma si hanno anche quelli più complessi da analizzare legati all’eccesso di debito rispetto alla crescita richiesta per ripagarlo. Se le autorità cinesi, viste le difficoltà, giungessero alla conclusione che il picco della loro economia non sarà di molto maggiore di quello di oggi, e quindi che il sorpasso degli Stati Uniti è una chimera, potrebbero, e qui sta la novità di questa analisi, arrivare alla conclusione che il momento migliore per affermare la propria potenza è oggi, quando i problemi ci sono, ma non si sono aggravati al punto da rendere la Cina troppo debole in confronto agli Stati Uniti. Se così andassero le cose, non sarà la potenza dominante (Sparta=Stati Uniti) a scatenare la guerra per fermare la crescita della potenza emergente (Atene=Cina), ma la potenza emergente che la scatenerà prima di diventare troppo meno potente rispetto all’avversario. Questa non sarebbe una novità. Il Giappone attaccò la marina statunitense a Pearl Harbour per evitare lo strangolamento nella fornitura delle materie prime di cui aveva bisogno, se la marina statunitense americana fosse diventata capace di controllare le rotte. E la disparità di potenza fra il Giappone e gli Usa era già immensa, ma gli Stati Uniti non avevano ancora iniziato il riarmo.

 

Naturalmente questo non è un percorso segnato. La Cina potrebbe risolvere i suoi gravi problemi, e preferire un percorso di riforme, che, privilegiando la crescita trainata dalla domanda per consumi invece di quella trainata dagli investimenti e dalle esportazioni, migliori nel tempo la sua condizione. La crescita economica è alla base del consenso politico soprattutto in un’autocrazia. La classe dirigente cinese dovrebbe essere interessata a percorrere una strada meno rischiosa di una guerra. I membri del Partito, che ha ottanta milioni di iscritti, occupano, infatti, quasi tutte le cariche oltre che nello stato, anche nelle imprese importanti. Che le occupino in quanto membri del partito, o perché chi conta di occuparle si iscrive al partito, non rileva. Il loro benessere dipende dal buon andamento dell’economia che genera il consenso politico e li rende ricchi.  Questo ragionamento sembra a prima vista tenere, ma lo stesso ragionamento valeva anche per la Russia, quando si sosteneva, sbagliandosi, che la guerra all’Ucraina non era nell’interesse della sua nomenclatura. Ma si potrebbe anche contestare anche l’ultima argomentazione, ricordando che le sanzioni contro la Russia hanno mostrato quale sia il prezzo che si paga se si aggrediscono gli equilibri internazionali.

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