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La regina è morta, viva l'etichetta (e tutti i riti da Walter Scott)

Alberto Mattioli

L’ultima lezione di forma, cioè sostanza, contro l’evo del Grande Sbraco. L'importanza del protocollo, che i potenti senza storia di oggi fanno a gara per infrangere

D’accordo: l’occasione è luttuosa, ma che meraviglia. Il nuovo Re in tight, quella vecchia diventata “di gloriosa memoria” sulle pergamene medievali, i Comuni che giurano davanti allo speaker in parrucca, araldi che leggono proclami dall’alto di logge pseudogotiche, arcieri con penne lunghissime tipo Robin Hood o alpini megalomani, trombettieri sormontati da incongrui cappelli da fantino, misteriosi consigli per annunciare notizie di dominio pubblico e globale già da un paio di giorni, lord temporali e spirituali, “God save the King” prima delle messe di suffragio, l’arcivescovo di Canterbury vestito come Tommaso Moro, cerimonie a Sidney o nei Caraibi, hip-hip-urrà! Tutto un Walter Scott: piume, pennacchi, kilt, bandiere, corazze, colbacchi, giarrettiere, stemmi, scettri, spettri, colpi di cannone. I personaggi entrano ed escono fra squilli di tromba, come nelle care vecchie didascalie shakespeariane.

 

Attenzione massima, è chiaro, agli esseri viventi preferiti della defunta Sovrana, ovviamente non figli e nipoti, ma cani e cavalli. I due corgie rimasti orfani? Naturalmente ad Andrea duca di York (o “di Pork”, secondo un vecchio e usurato calembour) che, buttato fuori dalla Ditta per scandali sessuali, è quello che avrà più tempo per accudirli; del resto, glieli aveva regalati lui. Su tutto veglia in giubba scarlatta e fascia a lutto sua grazia Edward Fitzalan-Howard, diciottesimo duca di Norfolk ed “earl marshal” della Corona, diventato di colpo l’uomo più indaffarato del Regno perché responsabile dell’organizzazione del funerale di Elisabetta e di quella, ancora più complessa, dell’incoronazione di Carlo. Anche perché, nel secondo caso, permangono angosciose incertezze: Carlo III sarà Difensore della Fede o delle Fedi (più ecumenico)? L’Unzione ci sarà oppure no (ma poi la farmacia che preparava il Crisma ha chiuso da sessant’anni, che si fa, si va da Penhaligon’s)? E bisognerà farsi ridare dagli scozzesi, notoriamente suscettibili, la Stone of Scone per rimetterla sotto il trono di Sant’Edoardo?

 

Finalmente gli inglesi possono fare gli inglesi, tutto impeccabile e pettinatissimo, altro che il ciuffo anarchico di Boris Johnson, defenestrato appena in tempo. In quest’evo del Grande Sbraco, ci ricordano il valore fondamentale del cerimoniale, dell’etichetta, delle precedenze, insomma del protocollo, che i potenti senza storia di oggi fanno a gara per infrangere con studiatissime trasgressioni, come se il Potere non vivesse anche e forse soprattutto di simboli, e aboliti quelli non si finisse per scoprire che il Re è nudo. In ogni occasione, anche quelle più solenni e meno indicate, è tutto un accorciare le distanze e abbattere le barriere, un abbraccio, una stretta di mano, una carezza al pupo, una battuta ovviamente “improvvisata”. Come dire: partecipo alla cerimonia ma solo perché ci sono obbligato, sono formalità, caro popolo, vecchiumi, residuati, vuote pompe, in realtà sono uno di voi e non vedo l’ora di mettere i gomiti sulla tavola e le dita nel naso.

 

Poco importa che questa finta umiltà celi, per lo più, un’autentica stronzaggine. Dall’altra parte delle transenne, del resto, mai che si voglia un Re, un Presidente o perfino un Papa solenne o almeno composto. Macché, avanti con una cordialità appiccicosa e invadente, sotto con i selfie, forza con il bacio, guardate com’è simpatico, alla mano, “spontaneo”, proprio uno di noi. 
E invece no. Una delle grandi lezioni della lunghissima carriera di Elisabetta è che la forma è sostanza, e che derogare alla prima significa mettere in discussione la seconda. Le riverenze e la reverenza, la corona in testa e la carrozza dorata sono la metafora della gerarchia politica e il riconoscimento di chi ci sta in cima. L’etichetta non è soltanto un relitto di altri e più civili tempi, né unicamente la codificazione delle buone maniere a uso di coloro che non le conoscono. Non si può pretendere che tutti abbiano lo chic naturale di Inès de la Fressange o di Pio XII, quindi serve una barriera contro quelle che Tomasi di Lampedusa chiamava “le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana”.

 

La delegittimazione delle élite di questi anni, l’idea che gli studi, la competenza, la carriera, l’uso di mondo e del congiuntivo, la lettura di qualche libro, magari perfino in una lingua diversa dalla propria, siano un limite o addirittura una colpa deriva anche da questa perdita di aura, dalle forme rese informali, dalla popolarità diventata populismo, dall’uno vale uno, quindi nessuno vale niente. E’ il dramma di sdrammatizzare tutto, “la retorica della piccolezza” contro cui metteva in guardia Savinio quando era ancora una reazione a quella trombona del fascismo, ma che oggi è incarnata dall’uomo delle istituzioni che si comporta come quello della strada, anzi peggio, e ricevendone applausi invece che pernacchie. Attenzione, però: il sonno dell’etichetta genera mostri. Si inizia con le pacche sulle spalle, poi si passa al vaffanculo e si finisce con Toninelli ministro. 
 

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