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l'arma gazprom

I limiti della “svolta asiatica” di Putin sul gas

Federico Bosco

Le entrate della Russia per la vendita di metano e petrolio sono più che raddoppiate, ma le esportazioni rallentano. Anche quelle verso i paesi al di fuori dell'ex Unione Sovietica, nonostante un aumento dei flussi giornalieri verso la Cina

Da quando ha invaso l’Ucraina le entrate della Federazione Russa per la vendita di petrolio e gas naturale in Europa sono più che raddoppiate rispetto alla media degli ultimi anni, nonostante la riduzione dei volumi esportati. La vice capo economista dell’Istituto di finanza internazionale (Iif) Elina Ribakova ha detto al Wall Street Journal che la Russia sta letteralmente “nuotando nei contanti”, da gennaio a luglio ha guadagnato 74 miliardi di dollari dal petrolio e 23 dal gas. 

Ma anche se da questo punto di vista Mosca è indubbiamente in una posizione di forza, la partita a lungo termine per il suo colosso statale del gas è rischiosa. Secondo uno studio di Bloomberg, Gazprom ha registrato un crollo della produzione giornaliera al livello più basso dal 2008. La produzione di gas a luglio è stata del 14 per cento inferiore rispetto al mese precedente, e del 12 per cento rispetto a luglio del 2021. Nel complesso, a luglio le esportazioni di gas russo verso i paesi al di fuori dell'ex Unione Sovietica sono diminuite di circa un quarto rispetto a giugno, nonostante un aumento dei flussi giornalieri verso la Cina. 

La svolta orientale viene raccontata dal Cremlino come la risposta trionfale alla rottura dei legami energetici con l’Europa, ma i numeri raccontano una storia diversa. A differenza del petrolio, più facile da trasportare via mare, per dirottare il gas in Asia servono gasdotti e realizzarli non è facile come annunciarli. Gazprom attualmente è pronta a inviare 16 miliardi di metri cubi di gas  all’anno in Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia, una quantità che può arrivare a 38 miliardi quando il gasdotto sarà ultimato e pienamente operativo nel 2030. Volumi alti, ma lontanissimi dai 155 miliardi di metri cubi annui che Gazprom ha venduto all’Unione europea nel 2021.

Difficile entrare nella testa di Vladimir Putin e capire quali erano i suoi piani, e come sono cambiati con l’andamento della guerra, ma almeno ufficialmente la svolta “asiatica” non era in programma. Nel 2020 Gazprom pianificava di esportare in Europa e Turchia circa 200 miliardi di metri cubi  di gas all’anno per i prossimi dieci anni (fino al 2030), mirando a mantenere una quota di circa il 35 per cento del mercato europeo nonostante la transizione verde. Anche volendo ipotizzare che l’annuncio fosse una strategia per non insospettire gli europei in vista della guerra, dietro questi obiettivi ci sono investimenti infrastrutturali (come il Nord Stream 2) portati avanti per anni, mentre la costruzione di gasdotti verso la Cina e l’Asia non è mai stata altrettanto ambiziosa e ostinata. 

Inoltre, la guerra ha reso evidente che per Mosca il gas è uno strumento geopolitico (più del petrolio), è disposta a bruciarlo pur di non venderlo all’Europa con l’obiettivo di costringere le opinioni pubbliche e i governi a capitolare. Ad andare in fumo però non è solo gas per il valore di decine di milioni di dollari al giorno, ma anche l’affidabilità di Gazprom come fornitore e partner commerciale per investimenti in Russia e in paesi terzi, e a ricordarselo non saranno solo gli europei. Già adesso il colosso statale russo ha difficoltà ad accedere alle tecnologie per lo sviluppo di impianti per il gas naturale liquefatto, necessari per preservare giacimenti e gasdotti artici alle prese con lo scioglimento del permafrost. 

Ursula von der Leyen ieri ha detto che i paesi europei “devono preparasi a una potenziale interruzione totale del gas russo” riducendo i consumi e diversificando le forniture. Dopo neanche un mese il piano di emergenza della Commissione europea per un taglio del 15 per cento dei consumi di gas non appare più una proposta allarmista. Al contrario, più passa il tempo, più diventa profonda la separazione tra Europa e Russia, e con essa la possibilità di un ritorno a relazioni paragonabili a quelle pre-belliche. 

Nonostante le richieste e le speranze di una soluzione negoziata tra Mosca e Kyiv da risolversi con una cessione di territori in cambio di pace, Putin è del tutto disinteressato a un compromesso che lascerebbe all'Ucraina il diritto di esistere come uno stato sovrano, qualunque siano i suoi confini. Von der Leyen ha parlato anche di questo, con parole durissime. “Il prezzo da pagare per il petrolio e il gas della Russia è la perdita di sovranità e indipendenza. Non vogliono partner, ma vassalli”.

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