Pechino usa la salute mentale per imprigionare i dissidenti

Giulia Pompili

Che cosa sono gli ankang e perché il Partito comunista cinese li usa ancora per tenere sotto controllo i dissidenti quando non è possibile portarli a processo. Un report

 Sono di qualche giorno fa le immagini di un negozio Ikea di Shanghai, in Cina, in cui si vedono  i clienti forzare le uscite dell’edificio, impauriti, dopo che un altoparlante aveva invitato le persone a restare al suo interno: una persona che aveva fatto shopping nel megastore aveva avuto un contatto diretto con un positivo al Covid, ed era quindi potenzialmente infetta. Le autorità avevano tentato di mettere in lockdown l’intero negozio, ma senza riuscirci. Perché i cittadini cinesi iniziano a essere spaventati e turbati dalla politica Zero Covid voluta da Xi Jinping: finire in un campo di quarantena obbligatoria dopo essere usciti per andare a comprare una lampada  svedese ha un effetto gigantesco sulla vita quotidiana delle persone, e anche sul benessere psicologico di chi da mesi è in uno stato costante di ansia e depressione.  La Cina è l’unico paese che continua a portare avanti misure draconiane per il controllo della diffusione del virus Sars-Cov-2, ma a due anni e mezzo dall’inizio della pandemia gli effetti di queste misure si vedono sull’economia cinese, che sta attraversando il peggior momento da decenni, e soprattutto sulla salute mentale dei cinesi. L’espressione resta un tabù in molti paesi asiatici, ma è soprattutto in Cina che la salute mentale evoca i danni dell’autoritarismo – lo choc collettivo, per esempio, di anni di politica del figlio unico – e anche il peggior sistema di repressione dei regimi autoritari. 


E’ con la scusa della malattia mentale che si silenziano molti dissidenti o “schegge impazzite”. Quando la sorveglianza, gli arresti domiciliari, le accuse di aver violato la sicurezza pubblica non bastano, ormai da tempo a disposizione del Partito comunista cinese per silenziare i suoi critici ci sono gli ankang – letteralmente “pace e salute per i malati mentali”. Si tratta di istituti correttivi psichiatrici gestiti dalla polizia, dove nei decenni successivi alla fondazione della Repubblica popolare cinese venivano imprigionati anche i dissidenti politici senza motivazioni mediche. Sembrava una pratica ormai desueta, ma un report appena pubblicato dalla ong Safeguard Defenders analizza alcuni dati che dimostrerebbero il contrario. Il documento analizza le dichiarazioni di 99 persone che tra il 2015 e il 2021 sarebbero state poste in isolamento per lunghi periodi, legate al letto e obbligate a terapie senza conoscerne gli effetti, abbandonate nei loro escrementi. L’abuso dei trattamenti sanitari obbligatori si è esteso, secondo l’analisi dei dati, e questo nonostante nel 2002 una condanna ufficiale della Società internazionale degli psichiatri abbia costretto Pechino, dieci anni dopo, a introdurre una nuova legge che proteggesse “i diritti dei pazienti”. Uno di questi è che si deve essere d’accordo con il ricovero a meno che la persona non sia un pericolo per sé e per gli altri.

 

Ma nelle testimonianze raccolte nel report questo non avviene quasi mai, e infatti un ricovero (spesso non è soltanto uno) serve a silenziare la persona, oppure a intimidirla, oppure a fare in modo che si porti per sempre addosso lo stigma di un ricovero coatto in ospedale psichiatrico. Per essere rilasciate, spesso le persone sono costrette a firmare una dichiarazione in cui si impegnano ad abbandonare la politica e a non denunciare misfatti sui social. Chi cerca di aiutare parenti o amici imprigionati ingiustamente rischia di essere arrestato. “Vivo nella paura ogni giorno, completamente insicuro”, racconta Tu Qiang, che ne 2018 è finito per la quinta volta in un ankang, “perché non so quando sarò rinchiuso ancora una volta dalle autorità in un ospedale psichiatrico ”. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.