Giuliani indica una mappa mentre spiega le cause legali legate alle elezioni del 2020, Washigton (Getty Images) 

L'esclusiva del Washington Post

I dati rubati nel riconteggio in Georgia e i trumpiani ben messi alle primarie

Giulio Silvano

Il Washington Post ha scoperto che persone legate a Trump copiarono i dati elettorali dai terminali usati per votare mentre cercavano prove per dimostrare che Biden non aveva vinto le elezioni del 2020. Trovate anche le prove dei pagamenti alla società intermediari. I repubblicani moderati temono i successi dei sostenitori della Big Lie

Milano. Negli Stati Uniti ci sono diversi modi per votare, tra cui il BDM (Ballot Marking Device), macchinari con un touchscreen acquistati a caro prezzo da alcuni stati per le ultime presidenziali. Il votante firma in un registro elettronico e gli viene data una card relativa al proprio distretto, questa viene inserita nel macchinario, si vota il candidato sul touchscreen e poi viene stampato un riassunto del voto. E’ un sistema che ha preso campo in diversi stati, come in Georgia, nel Nevada e nel Michigan. Venne anche in parte criticato dal pubblico, per via delle lunghissime code in alcuni seggi ma era considerato piuttosto sicuro.

 

Subito dopo le elezioni del 2020 una squadra di informatici venne inviata dagli avvocati vicini a Donald Trump apparentemente per dimostrare che c’erano stati dei brogli in alcuni distretti. Una delle azioni parte dell’ampia narrazione della Big Lie, cioè che Trump sia in realtà il legittimo vincitore delle presidenziali 2020. Tutti i riconteggi successivi infatti hanno dimostrato che non c’erano stati brogli, ma anzi, il tentativo di trovare delle irregolarità da parte dei trumpiani avrebbe potuto compromettere l’integrità dei risultati.

 

Quello che il Washington Post ha scoperto in esclusiva è che gli uomini di Trump, che lavoravano in quelle settimane per dimostrare che Biden non aveva vinto le elezioni, copiarono dei dati sensibili da questi macchinari mentre andavano in giro a “controllarli”. I documenti e le mail dimostrano che la raccolta di questi dati è avvenuta in alcune contee in Michigan, poi in Nevada e, il giorno dopo gli attacchi del 6 gennaio, in Georgia. Secondo le mail ottenute dal quotidiano americano, Sidney Powell, avvocatessa di Trump, una delle protagoniste della propagazione della Big Lie, ha condiviso con altri uomini vicini all’ex presidente i dati ottenuti. Per queste operazioni gli avvocati si sarebbero affidati all’azienda di ricerca informatica SullivanStrickler e, in un’email del 7 gennaio il suo direttore operativo diceva a Powell: “Stiamo andando in Georgia, nella contea di Coffee, per raccogliere il più possibile dai macchinari e dai software elettorali”, “tutto procede bene”.

 

Il giornale ha anche trovato le prove dei pagamenti alla società. In Georgia tra l’altro è già in corso un’investigazione per le pressioni che avrebbe fatto Rudy Giuliani, altro legale di punta di Trump, ex sindaco di New York caduto in disgrazia, indagato per interferenze nel voto. Si cerca di capire se questi diversi tentativi di interferire con i device elettronici in giro per il paese fa parte di un disegno più ampio con a capo la squadra di avvocati di The Donald. Un tentativo non necessariamente legale per cercare di bloccare la vittoria dei democratici. 

 

L’inchiesta del Washington Post aggiunge un altro tassello al sempre più spaventoso e diffuso mosaico di metodi a rischio illegalità utilizzati dai trumpiani per opporsi alla vittoria di Biden e per bloccare la transizione di potere da un presidente all’altro. L’attacco al Congresso è solamente l’apice violento di una campagna che ha minato la democrazia stessa, il suo funzionamento e la fiducia che gli elettori possono avere nelle istituzioni. Quello che adesso spaventa la parte non trumpiana del GoP è che i negazionisti della vittoria bideniana stanno uscendo vittoriosi dalle primarie di partito, come l’ex personaggio televisivo Kari Lake, che ha vinto le primarie per diventare governatrice del Nevada, e che nei suoi discorsi pubblici ha detto più che non avrebbe certificato la vittoria dei democratici se ci fosse stata lei nel 2020. Se allora questi personaggi fossero stati al potere avrebbero quindi potuto bloccare il passaggio di consegne, o comunque renderlo più lento.

 

In un’eventuale candidatura per il 2024, Donald Trump potrebbe quindi appoggiarsi in anticipo su questi fedelissimi governatori e pubblici ufficiali accusando i dem di brogli, cosa che aveva già fatto l’ultima volta. “Se si contano i voti legali, vinco”, aveva detto due giorni dopo il voto. Con una percentuale troppo alta di elettori e – soprattutto – di figure istituzionali convinte che le elezioni siano state rubate, i giochi cambiano paradigma. Non basterà vincere, bisognerà anche dimostrare di averlo fatto.

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