La figura "Le Triomphateur" durante un'esposizione di Jean Dubuffet a Monaco di Baviera, Germania, nel 2009 

25 anni del museo

Jean Dubuffet e la retrospettiva al Guggenheim di Bilbao

Ugo Nespolo

Le molte facce del fondatore dell’Art Brut, antisistema a ogni costo e intelligente uomo d’affari. E' stato il primo degli artisti europei a praticare l’inversione di tendenza e di marcia da Parigi a New York

Quel che ci attendiamo dall’arte è che ci disorienti, che ci faccia saltare le porte dai cardini, che ci riveli delle cose del nostro essere contro la maniera, contro la forma rasserenante.

Jean Dubuffet


 
Riflessa nelle poco cristalline acque del fiume e da anni ormai gloria contemporanea della città basca di Bilbao, si specchia la spaziale sagoma del Museo Guggenheim di Frank Gehry, già stella del decostruttivismo architettonico. Sono forme opalescenti fatte del trionfo del fragile titanio che le riveste e conferisce la forza emotiva di una grande scultura e mai quella di luogo ideale per ospitare mostre o fatti di cultura. Da tempo trasformato in irresistibile attrazione turistica amata o disprezzata da uomini di cultura e artisti sino al limite della tragicomica definizione del grande scultore spagnolo Jorge Oteiza che ha osato definirlo “fabbrica di formaggi molto stupidi”.

 

Vittima dell’ideologia dei musei di marca tanto cara al disinvolto ex direttore Thomas Krens, il Guggenheim Bilbao celebra ora i suoi 25 anni di attività proponendo eventi espositivi fatti di ottimismo precario sino all’asserzione coraggiosa, quanto molto ipotetica, per cui ora quasi solo “l’arte ispira il futuro”. Troneggia su tutte le mostre in programma la “Ardent Celebration”, la grande retrospettiva in corso sull’opera di Jean Dubuffet, imperdibile non fosse che per la possibilità golosa e tangibile di offrire spunti chiave, revisione di temi ancora vivi e atteggiamenti ambigui intorno alla figura dell’artista francese e per verificare se è stato davvero possibile per Dubuffet trovare la propria voce nel coro dominante del conformismo culturale o si è trattato in fondo soltanto di una comoda e falsa vanità da tradire. 

 

Soggetto geniale e sino oltre i quarant’anni capace e astuto négociant en vin del quale si ricorda, tra l’altro, la fede spinta, fino alla costosissima sicurezza, di saper riconoscere tra molti importanti vini il mitico Bordeaux Retour des Indes. Vino di ritorno in patria dal lungo viaggio sui veloci clipper transoceanici perché invenduto. Qualità sublime e unica di cui si favoleggiava negli ormai introvabili Château Lafite o Pontet-Canet o ancora nello Chasse Spleen Retour des Indes 1864. Renato Barilli, suo tempestivo esegeta, fin dal 1959 con un saggio sul Verri, dice che nessun artista come Dubuffet si è fatto trovare sempre presente e pronto ad agire al vento dei mutamenti di rotta delle tendenze artistiche in atto dal Dopoguerra, modulando e sezionando quasi i propri interventi estetici in veri e propri cicli. Così come tra gli anni Cinquanta e Sessanta è attento ai temi della materia e dell’informe è pronto a passare per immergersi, poi tra il Sessanta e Settanta, all’interno del suo complesso progetto chiamato Hourloupe.

 

Sceglie con interesse e attenzione le influenti amicizie colte come Max Jacob, André Masson, Jean Paulhan e certo non è immune al clima delle anticipazioni surrealiste fatte di sguardi attenti alle pulsioni psicoanalitiche freudiane e junghiane. Dubuffet interagisce con i temi dell’inconscio, con le sorprese della casualità, la potenza del gesto ed approfondisce la ricerca verso figurazioni regressive quasi per combattere (tema certo non nuovo) le certezze positiviste e razionaliste, per sconfessare forse la fiducia nelle sicurezze della storia, il mito del progresso e quello della macchina, così tanto tenuto in considerazione dall’avanguardia futurista.

 

Traguarda e afferra con prontezza il travolgente e improvviso avvento del dominio dell’oggettività pop e del suo ricco mercato, capace di porre in ombra, quasi senza pietà, l’ormai snervato universo informale ancora e sempre intriso di esasperati personalismi e confessioni intime diventati gesti di maniera. E’ pronto anch’egli ad abbracciare quel mondo delle cose, apprezzare e far propria l’arroganza del marketing senza però mai disdegnare l’ibrida contaminazione con le geometrie e la trionfante freddezza dei coevi esiti optical, in un connubio persino non troppo contradditorio definito poi da qualcuno come poptical. Ottimo uomo d’affari è stato il primo degli artisti europei a praticare l’inversione di tendenza e di marcia da Parigi a New York, dove la sua opera, grazie ai suoi abili mercanti, viene subito apprezzata e acclamata ancora prima e molto di più che in Francia.

 

Crede nei nuovi materiali, alla capacità innovativa dell’uso di plastiche, resine, polistirolo, poliuretano espanso e quant’altro e se ne serve con la stessa disinvoltura dissacrante degli artisti d’oltreoceano. Fioriscono grandi sculture, bizzarre architetture, azioni teatrali sino al complesso balletto di Coucou Bazar. Poi alla soglia degli anni Ottanta progetta, tra l’altro, la serie dei Teatri della Memoria seguiti da un turbine di esperienze che lo accompagneranno per sempre in un lungo percorso creativo, fatto di tempi e gesti in cui “c’è posto soltanto per la ripetizione differente” (Barilli).

 

Scrive Alessandra Ruffino nel saggio introduttivo al suo “Piccolo Manifesto per gli amatori d’ogni genere” di come “il mito di Dubuffet sia tutto costruito in chiave anti: anticonformista, antisistema, antimoderno, antiumanista, antipatriottico” al punto da risultare difficile abbozzare di lui un profilo positivo. Si tratta – come si vedrà nel corso del tempo – di un anti in trasformazione verso il successivo e più comodo fuori.

 

E’ il giugno 1946 quando Dubuffet pubblica il Piccolo Manifesto, libro nel quale dichiara che “l’Arte si rivolge allo spirito e non agli occhi” conferendo in qualche modo al fare artistico la sua preferenza per il gesto irrazionale al punto da dichiarare che “soltanto l’irreale lo incanta”. Dice anche di amare il non vero, la fausse vie, l’antimondo in una direzione che sembra spingerlo verso la via dell’irrealisme. Non fatica persino a dichiararsi panteista e immagina un curioso mondo stratificato come un dolce fatto a forma di gigantesca sfogliatella! Vuole che l’arte sia addirittura un bisogno primario, primordiale “tanto è più ancora del bisogno del pane” poiché “senza l’arte si muore di noia”. Dubuffet propone un’arte lontana dall’utile e dalla schiavitù del mercato, vorrebbe un’arte come festa, un’arte che possa fare ridere poiché per lui “l’arte deve sempre fare un po’ ridere e un po’ far paura”.

 

La vena teorica e polemica in Dubuffet è ricca almeno quanto la torrenziale produzione di oggetti d’arte e non teme di sbizzarrirsi in dichiarazioni di poetica e in costruzione di curiosi sistemi parafilosofici dal piglio sempre apodittico, quello che nel futuro lo costringerà a revisioni operative e inversioni di tendenza.

 

Egli s’agiterà nel tentare di scardinare i valori della cultura condivisa per proclamare valori selvaggi come “ebrezza, delirio, follia, spaesamento, precarietà” (Ruffino). Per lui la verità non si lascia circoscrivere né abbracciare per intero con lo sguardo, ma soprattutto a essa non si giunge tramite il ragionamento ma attraverso oscure ispirazioni. Sono forse proprio queste a convincere Dubuffet a spingersi lontano da un’arte legata alla cultura dell’eterno, quelle opere da venerare nei polverosi musei e da studiare in antiquati volumi accademici, vuole tentare l’eclettica ricerca di un’arte fatta di improvvisazione e di valori effimeri, un’arte sorprendente e anticulturale per eccellenza e forse ripensando alle roboanti utopie futuriste pronte a predicare lo sposalizio quasi mai riuscito di arte e vita.

 

“Tirare l’arte fuori dalla campana di vetro e riportarla per strada”. Il testo teorico più completo e radicale di Dubuffet apparirà però soltanto nel 1968 e il titolo stesso è un esplicito urlo di rivolta: “Asphyxiante Culture”, capace di generare nel mondo della creatività e dell’estetica grande interesse fino allo scandalo. Si parla in termini espliciti della necessità di affrancamento del gesto artistico come azione individuale, oppressa e schiacciata da un plumbeo sistema culturale internazionale. Parole dirette sotto forma di chiare rivendicazioni per tenere in vita gesti al di fuori dei sistemi di regole (curiosamente le stesse che tutt’ora persistono!) e creano obblighi, sudditanze, prigioni, oblio, mancanza di libertà. Sono rivendicazioni alimentate da un preciso gusto anarcoide e, a ben guardare, in stretta relazione con il futuro universo patafisico da lui frequentato nella posizione di satrapo ribelle.

 

Il testo lascia trasparire l’impossibilità di mediazione tra l’atteggiamento solitario e insofferente, la non osservanza degli obblighi e la normalizzazione silenziosa e sorridente che l’Artworld suggerisce e impartisce. Acuta l’analisi di Federico Ferrari quando, a questo punto, vede sorgere un’aporia, che richiede una risposta, dal momento che ogni tentativo di cesura può soltanto avvenire nel corpo della continuità culturale. Ecco allora che “… il problema che si pone all’artista, come a ogni intellettuale, è quello di come stare nel brodo di coltura senza farsi asfissiare … come aprire la storia al proprio tempo? O, detto altrimenti, come essere contemporanei?”.

 

La lunga polemica di Dubuffet contro un’arte compromessa perché ormai schiava dell’istituzione e quindi priva di spontaneità e di creatività, prende corpo non soltanto a livello teorico ma si “materializza” nella ricerca di lavori d’arte opera di irregolari, di non professionisti, in evidente distanza dal mercato. “L’arte – scrive Dubuffet – dev’essere individuale, personale e producibile da chiunque e non una faccenda legata a pochi mandatari”. Si tratta quasi sempre di persone che non hanno alcuna esperienza tecnica e nemmeno aspettative di fama o di denaro. Mario Perniola sintetizza i criteri fondamentali che per Dubuffet caratterizzano l’Art Brut: l’assoluta originalità formale e contenutistica e l’isolamento culturale, sociale e psicologico di chi crea. In effetti egli fin dal 1945 dà vita ad un’enorme raccolta di lavori di autodidatti, isolati, malati mentali, personaggi ritenuti dotati di qualità paranormali.

 

Lo psichiatra tedesco Hans Prinzhorn (1886-1933) raccoglie e studia migliaia di prodotti visivi di malati di mente nell’ospedale di Heidelberg e il risultato delle sue ricerche è descritto e studiato in un libro, nel 1922, dal titolo “L’arte dei folli”. L’attività plastica dei malati mentali. Le sue conclusioni diranno che la malattia non dà talento e che le opere degli psicopatici non sono arte. Sono proprio le tesi che Dubuffet intende rovesciare fondando con Breton nel 1948 la Compagnie de l’Art Brut. Il libro di Prinzhorn letto e donato da Max Ernst all’amico poeta Paul Éluard, che lo definirà il più bel libro di immagini, fu enormemente apprezzato da molti artisti dell’avanguardia. Gli studi del bizzarro psichiatra, che aveva con un certo successo tentato anche la carriera di cantante lirico, saranno ispirazione e nutrimento per le avanguardie a venire. Il surrealismo in particolare col suo non superficiale interesse per la psiche, il sogno, l’inconscio e per tutto il vasto armamentario dell’inatteso, del sorprendente, del primitivo, temi ai quali attingerà a piene mani Jean Dubuffet.

 

Conviene tornare all’attuale Celebrazione Ardente di Bilbao curata da David Max Horowitz, ennesima celebrazione di un grande artista che ha sempre però furbescamente giocato su due tavoli. Oggi non ha più alcun senso tentare di razionalizzare il troppo trafficato mondo dell’arte. Finita l’idea comoda di distinguere i territori della creatività e del mercato in Insider Art, quella degli artisti riconosciuti e paladini dell’istituzione, e dall’Outsider Art, il territorio che David Maclagan considerava dominio di “people in some way on the margin of society”. I filosofi han parlato del presunto nuovo e vago regno della Fringe Art, comodo non luogo colmo del “tutto va bene” e ideale magazzino d’intellettualità ridotte ma ricco di agevole dinamica mercantile. Risulta senza speranza la posizione del ribelle, di chi anche etimologicamente si solleva contro qualche forma di autorità e detesta obbedienza e sottomissione.

 

Da un lato la radicale scelta debordiana e situazionista di eliminare l’arte a favore della sola politica, dall’altro vani i tentativi marginali individuali di salvare il proprio saldo dilettantismo come amateur distingué, dal momento che persino la figura dell’anonimo non riesce a salvarsi dalle regole del valore-prezzo. Il giovane Robert Leich, in una fredda mattina d’inverno del 1982, in una strada periferica di Filadelfia trova abbandonate in sacchi e scatole 1.200 sculture di piccole dimensioni realizzate con maestria da un artista anonimo con materiali di scarto e pronte per la discarica. Trasportate alla Fleisher-Ollman Gallery hanno immediatamente preso la via di musei e – ovviamente – del mercato, proprio forti della mancanza d’autore e ammantate di mistero.

 

L’illusione e la menzogna della purezza sono la linfa che alimenta l’ipocrisia dell’Artworld ed è proprio la comoda doppia morale di Dubuffet ad offrirne una potente e plastica rappresentazione. E’ il gioco dell’ambiguità di cui scrive Alessandra Ruffino parlando di coerenza variabile se non d’impostura. “Dopo tanto strillare contro ministri, maestri e adepti di un’arte di setta … finì per essere presto musealizzato e, reprimendo i furori anarchici, si mostrò lesto ad accogliere incarichi dei massimi esponenti del capitalismo come David Rockefeller. Proprio come lui anche l’Art Brut si è presto dotata di un’organizzazione, di mercato, di archivi, collegi di esperti, riviste specializzate, congressi dedicati”. Già Céline aveva accolto con scarso entusiasmo i suoi scritti ma sarà Witold Gombrowicz che a proposito di “Asphyxiante Culture” gli scriveva “Mio caro Dubuffet voglio insultarvi: voi mentite e … siete in malafede, mentite perché siete artista”. Touché!

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