Tutti i guai dell'Iran

L'operazione del Mossad a Teheran, ma la Repubblica islamica deve guardarsi anche dagli amici

La Cina teneva a galla il paese, ora preferisce il petrolio di Putin. L'accordo nucleare si allontana e le piazze sono di nuovo piene

Cecilia Sala

La Repubblica islamica dell’Iran deve affrontare tre problemi: i nemici di sempre la attaccano sul suo territorio, gli alleati si trasformano in competitor oppure tradiscono le richieste di aiuto, i cittadini protestano – tutto avviene contemporaneamente. 
Il primo problema non è una novità, anche se l’Iran ha goduto per mesi e fino a poco tempo fa di un periodo di relativa calma in cui sembrava che le sue provocazioni nella regione, rispetto al passato, venissero quasi ignorate. Le operazioni erano condotte direttamente dai pasdaran o dai proxy di Teheran in giro per il medio oriente: andavano dagli attacchi in Iraq con missili che cadono accanto al consolato e a una base militare americana, ai sequestri di navi mercantili nel Golfo persico. Quella fase è finita, la quiete aveva una spiegazione: c’erano i negoziati sul nucleare in corso e le speranze (e la pazienza) riposte dagli americani e dagli europei nei colloqui di Vienna per tornare all’accordo. Adesso l’ottimismo è stato ridimensionato, e anche il potere negoziale di Teheran a quel tavolo. 

Con ordine: da quando Joe Biden è alla Casa Bianca non ci sono stati omicidi mirati in Iran fino a domenica 22 maggio. Quel pomeriggio il colonnello dei pasdaran Hassan Sayyad Khodaei era seduto al posto del guidatore dentro una Kia Pride, parcheggiato davanti al portone di casa sua nel centro di Teheran. Khodaei abita vicino al Majles, il Parlamento iraniano. In una zona teoricamente molto sicura e controllata, soprattutto dopo l’attacco suicida dell’Isis nel 2017. Ma due uomini in motocicletta si affiancano alla portiera e gli sparano cinque colpi, non vengono identificati né catturati e riescono a scappare. Khodaei era un colonnello delle Quds, le forze speciali dei pasdaran responsabili delle operazioni fuori dai confini, quelle comandate dal generale Qasem Soleimani fino al giorno in cui è stato ucciso con un drone americano MQ-9 Reaper all’aeroporto di Baghdad. Secondo il Mossad, Khodaei era il vice comandante dell’Unità 840 che si occupa dei rapimenti e degli attentati contro cittadini dello stato ebraico (e non solo) in giro per il mondo. Gli iraniani hanno accusato Israele dell’omicidio, al funerale del colonnello c’erano migliaia di persone che cantavano “morte a Israele” e Majid Mirahmadi, che fa parte del Consiglio di sicurezza nazionale (il ministero degli Esteri ombra), ha detto: “E’ senza dubbio un lavoro dei sionisti”. Il capo dei pasdaran ha aggiunto “la pagheranno” e anche il presidente Ebrahim Raisi ha promesso vendetta. Poco dopo un ufficiale dei servizi segreti americani ha detto a Ronen Bergman del New York Times che effettivamente è stata un’operazione del Mossad, che lui lo sa perché hanno avvisato gli Stati Uniti prima di agire e – presumibilmente – c’è stato un via libera informale. Un omicidio mirato del Mossad in Iran non è una sorpresa e non è una prima volta, ma le parole dell’ufficiale americano sono una conferma esplicita per cui gli israeliani si sono arrabbiati (e preoccupati), hanno chiesto spiegazioni e un’indagine sulla fuga di notizie. Lunedì Israele ha sconsigliato a tutti i cittadini di andare in Turchia, perché sarebbe la sede più probabile per una vendetta iraniana. 

Tre giorni dopo l’omicidio, un drone ha attaccato il sito militare di Perchin, sessanta chilometri a sud est della capitale. Un giovane ingegnere è morto e un altro dipendente è stato ferito: stavano lavorando in un centro di ricerca della Difesa iraniana dove si progetta la tecnologia per i modelli locali di droni e missili balistici. Anche questo attacco è molto simile ad altri attacchi del Mossad avvenuti in passato sul territorio iraniano. La settimana scorsa la Grecia ha sequestrato una petroliera iraniana e ha avvisato gli americani, che hanno confiscato il carico perché è sotto sanzioni. La Marina militare della Repubblica islamica ha risposto catturando due navi mercantili greche mentre navigavano in acque internazionali nel Golfo persico. 

Nelle istituzioni degli Stati Uniti, l’ambasciatore Robert Malley è quello che ha i migliori rapporti con l’Iran (nel senso che, a differenza degli altri, riesce anche ad avere colloqui diretti con ufficiali di Teheran). Biden lo ha scelto come suo inviato speciale, lui ha sempre sostenuto la necessità di un accordo ed è sempre stato il più ottimista rispetto alla possibilità di trovarlo. Mercoledì ha cambiato idea, ha detto al Senato che “le probabilità di successo dei negoziati sono inferiori alle probabilità di fallimento e, se gli Stati Uniti non tornano all’accordo, ci sarà un’applicazione più rigorosa delle sanzioni”, che si è già vista in Grecia la settimana scorsa. Malley ha anche detto che qualsiasi bozza verrà prima esaminata dal Congresso: tutti sanno che non avrebbe la maggioranza perché molti democratici sono contrari e anche il presidente della Commissione esteri, un democratico, è sempre stato critico con la politica di Biden sull’Iran. La novità non è nella guerra ombra tra Israele e Iran, ma nell’atteggiamento dell’Amministrazione americana (che poi ha riflessi anche sulla guerra ombra). 

In questo momento, Teheran non deve preoccuparsi solo dei nemici, ma anche degli amici: da quando è cominciata la guerra in Ucraina, gli iraniani si pestano i piedi con i russi per vendere le risorse energetiche agli stessi compratori cinesi. Hamid Hosseini, che fa parte del consiglio di amministrazione dell’Unione per le esportazioni di petrolio e gas, ha detto che le loro vendite in Cina “soffriranno per l’ingresso della Russia in quel mercato”. E’ già così: le vendite della Repubblica islamica alla Repubblica popolare si sono ridotte di oltre un quarto da quando gli Stati Uniti e il Regno Unito, a marzo, hanno deciso l’embargo sul petrolio russo. Due giorni fa il costo di un barile di petrolio ha raggiunto un nuovo picco, 120 dollari, il prezzo più alto degli ultimi due mesi. Ma questo è un problema solo per noi, Pechino può scegliere tra due offerenti in crisi: il petrolio iraniano era già scontato perché ad acquistarlo si rischia di incappare nelle sanzioni secondarie americane, poi Mosca ha iniziato a offrire il suo a un prezzo ancora più basso. La Cina preferisce quello russo e, dall’inizio dell’invasione, ha lasciato almeno quaranta milioni di barili iraniani in mezzo al mare senza più un porto in cui sbarcare. Amir Handjani, analista del think tank americano Quincy Institute for Responsible Statecraft, ha detto alla Cnn: “In questo momento, l’unica àncora di salvezza dell’Iran è vendere petrolio alla Cina. E’ la Cina a tenere a galla l’Iran”. Il petrolio iraniano è sanzionato, ma seicentomila barili finivano comunque nei porti cinesi e, ogni mese, il governo di Teheran riceveva in cambio più di mezzo miliardo di dollari. Al vertice di due giorni fa, l’Unione europea ha raggiunto un’intesa sull’embargo sul petrolio russo e, se per Putin questa sarà la sanzione più dura dall’inizio della guerra, per gli iraniani sarà anche peggio.

La crisi economica destinata a peggiorare mette in una situazione scomoda l’establishment di Teheran, perché gli iraniani già protestano adesso. Per la corruzione, il malgoverno e l’incuria. Le manifestazioni sono cominciate ad Abadan, nel sud, dopo che un palazzo di dieci piani costruito solo tre anni fa è crollato il 23 maggio: ci sono stati trentatré morti. Adesso le protestano si sono allargate ad altre quattro città, sono comparsi gli slogan contro agli ayatollah e gli spari sulla folla. Lunedì, allo stadio di Teheran, decine di migliaia di persone si sono schierate dalla parte dei manifestanti con un coro.