(foto di Ansa)

la natura del potere

Il putinismo come malattia senile del totalitarismo

Michele Magno

Sovranità, potere e tirannia. Fenomenologia dell’ultimo autocrate in guerra con la storia

Il nonno di Vladimir Putin continua imperterrito a muovere i pezzi nonostante lo scacco matto subìto dal nipote di appena otto anni. E al giovane Vladimir che gli chiede perché non rispetta le regole, risponde: “Quali regole? Un vero uomo le regole le stabilisce da sé”. Vera o falsa che sia,  questa storiella narrata dallo stesso leader russo è una metafora della concezione del potere che lo ha guidato nella sua ascesa al vertice del Cremlino. E’ un episodio, uno fra i tanti, raccontato da Giorgio Dell’Arti in una biografia del “nuovo zar” che da bambino sognava di diventare agente del Kgb, e che proprio con le armi del segreto e del mistero ha costruito il suo mito di leader in grado di riscattare una nazione delusa e umiliata dal crollo della sua sua antica potenza (Le guerre di Putin. Storia non autorizzata di una vita, La nave di Teseo, marzo 2022).

 

Non so se l’autore sarà d’accordo, ma la sua Storia ricorda il modello letterario inaugurato nel I secolo d.C. da Plutarco, in cui la biografia diventa rappresentazione dei vizi e delle virtù di governanti e condottieri. “Non scrivo delle opere di storia, ma delle vite”, afferma l’erudito di Cheronea nel proemio alle biografie di Alessandro e Cesare. “Spesso – aggiunge – un breve fatto, una frase, uno scherzo, rivelano il carattere dell’individuo più di quanto non facciano le battaglie”. Un gusto per il particolare aneddotico che sarà demolito da Benedetto Croce, secondo il quale “l’individuo è pensato e giudicato solo nell’opera che è sua e insieme non sua, che egli fa e che lo oltrepassa” (La storia come pensiero e azione). Infatti, nonostante le voci favorevoli al genere biografico come quella di Jacob Burckhardt, che lo celebra addirittura come una delle più importanti scoperte del Rinascimento italiano, in Europa esso conoscerà una apprezzabile fioritura solo nei decenni terminali del “secolo breve”, complici la disgregazione dell’impero sovietico, la fine del mondo bipolare, la crisi delle ideologie di massa, i travagli della transizione postcomunista.

 

Giorgio Dell’Arti affronta un punto centrale nel suo ultimo libro: perché il potere di Putin ha (almeno fin qui) consenso?

 

Si sgretolano le antiche certezze sulla dimensione teleologica della storia, già messe a dura prova dalla Shoah e dal rischio di una guerra nucleare. Emergono atteggiamenti più cauti e disincantati, forme meno ambiziose e meno totalizzanti di comprensione degli eventi storici. Il genere biografico acquista così una rinnovata vitalità. Nel 1986 Pierre Bourdieu denuncia l’assurdo scientifico costituito dall’opposizione netta tra individuo e società (L’illusion biographique). Nel 1989 Jacques Le Goff, sul periodico Le Débat, definisce la biografia come un “indispensabile strumento d’analisi delle strutture sociali e dei comportamenti collettivi”. Nello stesso anno, un numero di Annales si apre con un intervento di Giovanni Levi sull’utilità della biografia nelle scienze sociali. Del resto, gli stessi fondatori della rivista, Marc Bloch e Lucien Febvre, erano piuttosto cauti di fronte alle pretese prevaricatrici della “storia delle strutture” (istituzionali, economiche, demografiche) sulla “storia degli uomini”. Non fortuitamente, si deve proprio a Febvre una superba biografia di Lutero (1928).

 

Questo mutamento di clima si rispecchia in modo esemplare nel percorso intellettuale di Ian Kershaw, uno dei maggiori studiosi del Terzo Reich. Lo storico inglese, di formazione strutturalista, approda alla stesura di una biografia di Hitler, pubblicata nel 1998, spinto dall’insopprimibile bisogno – come dichiara nella prefazione – di “approfondire la riflessione sull’uomo che fu fulcro indispensabile e centro ispiratore” del regime nazista. Servendosi del concetto weberiano di carisma per spiegare sia l’autorità assoluta del dittatore sia il gregarismo del popolo tedesco, il professore dell’università di Sheffield tratteggia un profilo del Führer che – come egli stesso ammette – si risolve in definitiva nella “storia del suo potere”.

 

Torniamo così a un punto centrale affrontato da Dell’Arti: perché il potere di Putin ha (almeno fin qui) consenso? Forse Carl Schmitt avrebbe risposto così: “In certi casi per fiducia, in altri per paura, a volte per speranza, a volte per disperazione” (Dialogo sul potere). Secondo il giurista di Plettenberg gli uomini hanno bisogno di protezione, e cercano questa protezione nel potere. Il legame tra protezione e obbedienza è dunque per lui l’unica spiegazione del potere. Chi non ha il potere di proteggere qualcuno non ha nemmeno il diritto di esigerne l’obbedienza. Viceversa, “chi cerca protezione e la ottiene non ha il diritto di negare la propria obbedienza”. Il potere ha una logica interna che va al di là di chi lo esercita: “E’ più forte di ogni volontà di potenza, più forte di ogni bontà umana e, per fortuna, di ogni umana cattiveria”. Il potere, insomma, non ha identità, ma produce identità, quella per il cui riconoscimento servo e padrone si affrontano nella hegeliana Fenomenologia dello spirito.

 

Per Carl Schmitt, teorico dello “stato d’eccezione”, davanti alla porta del potere c’è sempre un’anticamera che bisogna varcare

 

Quando Schmitt concepisce il suo pamphlet (1954), il potere veniva già identificato da Martin Heiddeger con la “gabbia della tecnica”, con la capacità di ridurre gli uomini a “piccoli funzionari” dell’apparato globale. Tuttavia, il pensiero di Schmitt si discosta non poco da quello del filosofo di Essere e tempo, di cui era buon amico. Il titolo esteso del Dialogo recita, infatti, sull’accesso a coloro che lo detengono. Il problema del potere è cioè quello di come sia possibile entrarvi in contatto. Partendo dall’affermazione che “ogni potere diretto è sottoposto immediatamente a influenze indirette”, la sua  conclusione è che “non esiste alcun potere senza questa anticamera, senza questo corridoio” (nel 1890 Bismarck si dimise quando l’imperatore Guglielmo rifiutò il preventivo assenso del cancelliere sui suoi ospiti a corte). L’essenza del potere viene insomma solo adombrata, ma non enunciata esplicitamente.

 

La condizione dell’uomo schmittiano di fronte al potere somiglia a quella del campagnolo della novella di Kafka “Vor dem Gesetz” (pubblicata nel 1915 e poi inserita nel romanzo Il Processo), che attende invano di poter varcare la porta della legge (“Gesetz”), perché un custode – da cui viene soggiogato – glielo impedisce. Analogamente, per il teorico dello “stato d’eccezione” davanti alla porta del potere c’è sempre un’“antichambre”, a cui prima bisogna accedere per poterla varcare. Ciò significa che del potere non vediamo mai il volto, ma soltanto la sua immagine riflessa nello specchio della storia, della lotta per la sua conquista. D’altronde, l’idea che il potere vero stia “altrove”, che sia invisibile e remoto ancorché influentissimo, ancora oggi è largamente diffusa.

 

Cos’è, allora, il potere? Voltaire diceva che consiste “nel far agire gli altri a mio grado”. Per Max Weber esiste ogni qualvolta ho la possibilità di affermare la mia volontà contro la volontà altrui. Secondo Bertrand de Jouvenel, “comandare ed essere ubbiditi: senza di questo non c’è potere, con questo non è necessario nessun altro attributo perché esso ci sia… La cosa senza la quale non può essere: quella essenza è il comando” (La sovranità). Sono solo alcuni nomi del lunghissimo elenco di studiosi che considerano la violenza come la più flagrante manifestazione del potere. Alessandro Passerin d’Entrèves, invece, lo definisce come un tipo di “violenza più mite”, come “forza istituzionalizzata” (La dottrina dello Stato). Dal canto suo, Hannah Arendt attribuiva la paternità delle concezioni imperniate sul “comando dell’uomo sull’uomo” al concetto di potere assoluto, coevo alla nascita dello stato-nazione e teorizzato da Jean Bodin e Thomas Hobbes. “Oggi dovremmo aggiungere – annotava profeticamente nel 1969 – la più recente e forse più formidabile forma di dominio: la burocrazia o il dominio di un intricato sistema di uffici in cui nessuno, né uno né i migliori, né i pochi né i molti, può essere ritenuto responsabile, e che potrebbe (…) essere definito come il dominio da parte di Nessuno” (Sulla violenza).

 

Per Hannah Arendt c’è una differenza tra la dominazione totalitaria e le tirannidi. La prima si rivolge anche contro i propri  amici

 

Se il potere non ha bisogno di giustificazione, essendo inerente all’esistenza stessa delle comunità politiche, non può però fare a meno della legittimazione: la violenza può essere giustificabile, ma non sarà mai legittimata. Questo assunto porta la filosofa di Hannover a stabilire una differenza decisiva fra la dominazione totalitaria, basata sul terrore, e le tirannidi fondate con la violenza. Perché la prima si rivolge non solo contro i propri nemici ma anche contro i propri amici, avendo paura perfino del potere dei suoi sostenitori. E il colmo del terrore si raggiunge quando lo “stato di polizia” comincia a divorare i propri figli, quando “i boia di ieri diventano le vittime di oggi”. E’ pertanto insufficiente – conclude – affermare che il potere e la violenza non sono la stessa cosa.

 

Il potere e la violenza sono opposti; dove governa l’una, l’altro è assente. Questo implica che “non è corretto pensare all’opposto della violenza in termini di non violenza; parlare di potere non violento è di fatto una ridondanza (…). Se la pratica non violenta di Gandhi si fosse scontrata con la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, il Giappone anteguerra, invece che con l’Impero britannico, probabilmente il suo esito sarebbe stato non la decolonizzazione, ma un massacro”. Riassumendo: il potere fa senz’altro parte dell’essenza di tutti i governi, ma la violenza no. La violenza è per natura strumentale, mentre il potere è “un fine in sé”.

 

Ci sono tuttavia anche altri vocabolari del potere, che non parlano soltanto dell’innato istinto di dominio dell’uomo e della sua speculare, congenita inclinazione all’obbedienza. C’è il vocabolario delle donne, anzitutto di quelle donne che hanno saputo affilare le proprie armi – la bellezza, l’intelligenza, la seduzione, l’astuzia – per mettere in discussione l’arbitrio maschile nella politica, nella cultura, nell’arte. C’è poi il vocabolario di quella tradizione liberale che, partendo dai moralisti scozzesi – David Hume, Adam Smith e, prima ancora, il loro maestro Francis Hutcheson – e dalla nozione di “simpatia”, ha visto il suo ideale compimento nella Scuola austriaca di economia. Ma si deve a uno studioso italiano, Bruno Leoni, una delle più originali trattazioni in chiave liberale del concetto di potere. Il suo capolavoro, Freedom and the Law (1961), segna una sorta di rivoluzione copernicana nell’infinito dibattito sull’origine e le radici del potere, che ribalta il vecchio primato dell’elemento conflittuale e lo sostituisce con il primato dell’elemento cooperativo. Per Leoni gli individui si scambiano incessantemente beni (economia), pretese (diritto), poteri (politica), e da questi scambi si formano “dal basso” gli assetti istituzionali in cui si articola la sovranità statuale.

 

Bruno Leoni ribalta il vecchio primato dell’elemento conflittuale nel potere e lo sostituisce con il primato dell’elemento cooperativo

 

Anche “l’archeologo dei saperi” Michel Foucault nutriva la stessa insoddisfazione per le teorie del potere che privilegiano il suo lato coercitivo. Per lo storico della follia, del crimine, della sessualità, era necessario sbarazzarsi del “modello del Leviatano”: “Le relazioni di potere sono sia quelle che gli apparati dello stato esercitano sugli individui, sia quelle che esercita il padre di famiglia sulla moglie e sui figli, il potere che esercita il medico, il potere che esercita il notabile (…). Non c’è dunque una fonte unica dalla quale scaturirebbero come per emanazione tutte queste relazioni di potere” (Il potere, una bestia magnifica, 1977).

 

Pochi decenni prima di Leoni e Foucault, commentando la morte di Lenin, Antonio Gramsci aveva affidato le sue riflessioni sul potere al settimanale Ordine Nuovo (1 marzo 1924). Esse si collocano agli antipodi della tradizione liberaldemocratica: “Ogni Stato è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano intorno a uno dotato di maggiore capacità e maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un capo”.

 

L’allora segretario del Partito comunista teorizzava dunque in modo netto la necessità di una leadership carismatica, né mancava di criticare la posizione di “quei socialisti [che sostengono di volere] la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei capi, (…) che il comando si personalizzi”. D’altronde, non è un caso che tutte le esperienze totalitarie – di destra e di sinistra – si siano rette su un culto della personalità assoluto, che saldava bisogno di adorazione delle masse e megalomania del leader. Il “putinismo”, in fondo, è soltanto una delle sue ultime epifanie, grottesche quanto  tragiche. 

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