Quanto conta per Kyiv l'arrivo dell'ambasciatrice americana Brink

Enrico Pitzianti

Per quasi tre anni gli Stati Uniti non hanno avuto un proprio rappresentante in Ucraina. Il ritorno delle delegazioni, per quanto all’inizio non sarà fisso ma “mobile”, contribuirà a mettere la capitale in sicurezza

Bologna. Domenica il segretario di Stato americano Antony Blinken e Lloyd Austin, il segretario della Difesa, sono volati a Kyiv per incontrare Volodymyr Zelensky. Il viaggio era segreto per ovvie ragioni di sicurezza, ma che stesse per avvenire era nell’aria. D’altronde nella capitale ucraina c’erano già state le visite di Ursula von der Leyen, Boris Johnson e di Pedro Sánchez e questa volta, proprio come in quelle passate, l’intento era prima di tutto quello di esprimere vicinanza al governo ucraino. Ma oltre all’aspetto simbolico c’è la volontà politica di formalizzarla, questa vicinanza. Durante l’incontro è stato annunciato un ulteriore pacchetto di aiuti per un totale di 713 milioni di dollari: di cui 322 milioni andranno direttamente all’Ucraina, mentre la restante parte sarà inviata ai paesi che hanno aiutato Kyiv negli scorsi due mesi (per ora da Washington sono già arrivati aiuti per 3,7 miliardi di dollari). Inoltre il governo statunitense ha fatto sapere chi sarà il prossimo ambasciatore della Casa Bianca in Ucraina: Bridget Brink.


Quella di Brink non è una sostituzione, l’ambasciatrice non subentra a nessuno, semmai arriva per colmare un vuoto che esiste dal 2019, quando l’amministrazione Trump decise di sollevare Marie Yovanovitch dal suo incarico e lasciare così il posto vacante. Sono decisioni che oggi, a posteriori, appaiono chiaramente per ciò che erano già allora: modi per far pressione sul governo ucraino, di modo che la mancanza dell’appoggio statunitense spingesse Zelensky ad aiutare Donald Trump nell’intento di  screditare il suo avversario politico, Joe Biden. Zelensky decise di non cedere al ricatto e non produsse i documenti che servivano a Trump per avvalorare le false accuse di corruzione a carico di Joe Biden e di suo figlio Hunter


Brink è una diplomatica di lungo corso, è ambasciatrice statunitense in Slovacchia, parla russo, è nata in Michigan e ha esperienza sia nell’Europa orientale sia, più nello specifico, nei paesi con forti legami con Mosca. Ha già lavorato con i governi di Serbia, Cipro, Georgia e Uzbekistan ed è anche per questo che il suo nome era considerato il più papabile già negli scorsi mesi. La sua nomina, in ogni caso, dovrà essere confermata dal Senato degli Stati Uniti.


Che la posizione di ambasciatore americana in Ucraina sia rimasta a lungo vacante non è stato un imbarazzo soltanto per l’Amministrazione di Donald Trump, ma anche per quella attuale, sebbene in misura minore. Nei quasi tre anni in cui gli Stati Uniti non hanno avuto un proprio ambasciatore a Kyiv si è aperto un dibattito, a tratti anche vivace, attorno a chi dovesse ricoprire il ruolo, e quanto velocemente dovesse essere fatta la nomina. Il timore era che se l’Ucraina fosse rimasta troppo a lungo priva di un rappresentante diplomatico americano allora a Mosca sarebbe arrivato un messaggio di esplicito disinteresse occidentale per le sorti di Kyiv. Lo scorso gennaio, durante una conferenza stampa, venne chiesto alla portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, “Perché il presidente non ha ancora nominato un ambasciatore in Ucraina?”. Psaki rispose che Biden stava pensando di nominare qualcuno ma stava “cercando di trovare la persona giusta per quel ruolo”. Una risposta normalissima, ma che oggi apre a un dubbio fastidioso: i paesi occidentali avrebbero potuto dare più credito alle provocazioni russe nell’est dell’Ucraina e dimostrare un impegno diplomatico maggiore così da creare una deterrenza più consistente? Certo, col senno del poi è facile a dirsi. Oggi, però, quell’impegno maggiore è arrivato: la strategia americana (come anche quella dell’Ue) prevede di riaprire l’ambasciata a Kyiv il prima possibile. Non è ancora stata annunciata la data in cui Brink arriverà nella capitale ucraina, ma quasi certamente ci saranno dei primi viaggi della delegazione che partiranno da ovest, da quel confine polacco in cui il personale diplomatico è stato spostato due mesi fa. Il ritorno delle delegazioni nella capitale, per quanto all’inizio non sarà fisso ma “mobile”, contribuirà a metterla in sicurezza. In gergo militare si dice “proiezione per protezione”: se non si può stare fissi in un punto per lo meno ci si impegna a passarci spesso. E di norma funziona.  

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