Xi Jinping durante una visita in Thailandia nel 2011 (foto EPA)

Perché il sud-est asiatico preferirebbe Xi alla diplomazia del bambù

Massimo Morello

Negli anni i paesi di quest'area geografica si sono via via avvicinati alla Cina. E adesso sembrano pronti ad abbandonare la tradizionale strategia dell'oscillazione per firmare un patto con Pechino

Bangkok. Due bandierine, thailandese e ucraina, sono collocate accanto a un mazzo di fiori sul tavolo di una sala del Conrad Hotel di Bangkok. Attorno al tavolo, le foto dei bombardamenti su Mariupol, Irpin, Kharkiv. Oleksandr Lysak, incaricato d’affari ucraino a Bangkok segue con attenzione gli ultimi preparativi per la conferenza stampa prevista per le 11 del 18 marzo. Pochi minuti prima, cercando inutilmente di non farsi notare, il personale dell’ambasciata sostituisce le due bandierine con la sola bandierina ucraina. Secondo un giornalista locale è accaduto dopo una telefonata da parte del ministero degli Esteri thailandese. Durante la conferenza stampa, Lysak elude la domanda che ne chiedeva conto. Precisando che per lui è importante il “sostanziale supporto” della Thailandia, riferendosi al voto favorevole del 2 marzo sulla risoluzione delle Nazioni Unite che condannava l’aggressione russa. In seguito, saranno molti a notare come una precedente conferenza stampa dell’ambasciatore russo a Bangkok Evgeny Tomikhin, avesse per sfondo due grandi bandiere, russa e thailandese. In quell’occasione anche Tomikhin aveva apprezzato il comportamento del governo thai, riconoscendone la sostanziale neutralità.

Entrambi i casi sono una plastica rappresentazione della “diplomazia di bambù”. E’ un concetto che può essere ben apprezzato da chi abbia attraversato le foreste di bambù nel nord della Thailandia: tronchi alti sino a venti metri che oscillano al minimo soffio creando una specie d’onda verde. Secondo Jittipat Poonkham, professore di Affari internazionali alla Thammasat University, “la coincidenza di forza e flessibilità del bambù ispira una politica estera tanto adattabile quanto pragmatica”. Con la guerra in Ucraina quella diplomazia sembra ispirare ancor più profondamente la politica estera thailandese e di altri paesi del sud-est asiatico. Però, come fa notare il professor Poonkham, anche l’oscillazione deve trovare un equilibrio.

Apparentemente è l’ennesimo paradosso asiatico. Nella realtà significa che bisogna operare una scelta diversa e più radicale delle precedenti. La scelta geopolitica tra il cosiddetto occidente e l’oriente, ossia tra gli Stati Uniti e la Cina. La Cina, infatti, è come un nuovo vento che soffia sulle foreste di bambù con intensità e direzione costante. Per la Thailandia e altri paesi dell’area la Cina è diventato il maggior partner commerciale e militare, pari alla riduzione d’influenza degli Stati Uniti. Ne è un buon esempio la Cobra Gold, la più grande esercitazione militare nello scacchiere Indo-pacifico che dal 1982 è stata organizzata in collaborazione tra Stati Uniti e Thailandia. Negli ultimi anni però, Cobra Gold si è focalizzata sulle operazioni di assistenza umanitaria e di soccorso in caso di calamità naturali, mentre dell’aspetto militare sono rimasti gli aspetti pittoreschi, come quello di mordere la testa di un serpente o mangiarne la carne (in sud-est asiatico è considerata una ghiottoneria). Nel frattempo, invece, si è innalzato il livello delle manovre congiunte tra Thailandia e Cina.

E’ l’epilogo di una di una storia iniziata nel 1954 con la costituzione della Seato, la South-East Asia Treaty Organization. La versione locale della Nato comprendeva Francia, Australia, Filippine, Nuova Zelanda, Pakistan, Regno Unito, Stati Uniti e Thailandia: fu sciolta nel 1977 per la sua incapacità ad adattarsi alla geopolitica del post Guerra fredda. Sul fronte economico, mentre declinavano i rapporti con gli Stati Uniti, aumentavano quelli con la Cina, divenuta il maggior partner commerciale della Thailandia. Ma quello che sta cambiando è soprattutto l’immagine della Cina: non è più il “Grande Fratello”. Appare invece come il santuario dei valori asiatici, la nazione del riscatto dopo i secoli dell’umiliazione. “La Cina sta diventando più importante che mai” ha dichiarato il professor Poonkham, che arriva a considerarla come il “più affidabile e potente mediatore nella guerra tra Russia e Ucraina”. Della stessa idea anche un analista piuttosto cauto come Thitinan Pongsudhirak, direttore dell’Institute of Security and International Studies di Bangkok. “La Cina può giocare un ruolo vitale nella mediazione tra i due paesi” ha dichiarato al seminario The Russia-Ukraine War and Prospects: Impact for World Order and Implications for Asia.

Col protrarsi del conflitto russo-ucraino un sempre maggior numero di intellettuali asiatici si sta allineando su questa posizione, pensando che la tradizionale equidistanza tra superpotenze debba essere sostituita da un nuovo modo di pensare e da una nuova narrazione degli avvenimenti. Secondo l’ultimo rapporto sullo “Stato del sud-est asiatico” curato dall’Iseas-Yusof Ishak Institute di Singapore, ad esempio, l’81.5  per cento dei cambogiani e circa l’82  per cento dei lao sceglierebbe di schierarsi con la Cina, e il 25.3 per cento dei cambogiani la considera come “una potenza benevola e benefica”. Opinione condivisa da “solo” il 10 per cento dei thai. Bisogna ammettere che molti leader locali sono attratti dalla figura di Putin. Era il caso del presidente filippino Duterte, del premier thai Prayut Chan-o-cha, del potente ministro della Difesa indonesiano Prabowo Subianto. Ma si tratta soprattutto di un’infatuazione per il populismo autoritario del russo.

Per altri, come il Vietnam, il Laos e il Myanmar, la Russia è stato il maggior fornitore di armi. Nulla di più. Come ha scritto Zachary Abuza, professore al National War College di Washington, la Russia ha “Zero soft power” tra le nazioni dell’Asean. Solo il Vietnam, dunque, può realmente considerarsi alleato di Mosca. Sia per lunghissima tradizione che risale al tempo della “guerra americana”, sia perché la Russia rappresenta un possibile scudo contro un attacco della Cina (il precedente risale al 1979), millenario antagonista che minaccia la sovranità di Hanoi sul Bien Dong, il mare dell’est (per Pechino il Mar cinese meridionale). Diverso il sentimento nazionale nei confronti della Russia riguardo al conflitto in Ucraina. In questo caso, infatti, scatta un meccanismo d’identificazione con una nazione assalita da un nemico molto più grande e potente. Solo per il Vietnam, infatti, vale il paragone tra l’invasione dell’Ucraina e quella che potrebbe essere il suo contagio asiatico, ossia Taiwan.  In un modo o nell’altro, dunque, tutti i paesi dell’area sembrano pronti a siglare un “patto faustiano” con Pechino.  Nel caso della guerra in Ucraina, almeno per ora, si rivela conveniente, dato che richiede una neutralità che in sud-est asiatico appare alternativa alla diplomazia di bambù. 

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