In Russia tutto è fermo e chiuso. Tranne la repressione

Micol Flammini

Putin ha riportato il paese indietro nel tempo, i russi sono al buio. Bbc, Facebook, Ekho Mosky, gli aerei, i marchi e la tv che chiude sulle note del Lago dei cigni

Ogni giorno la Russia perde un pezzo di mondo, rimane con i cieli svuotati dagli aerei, i negozi senza marchi, le file ai bancomat. Si svuota internet, senza Twitter e Facebook. Si svuota la tecnologia, senza Apple, Microsoft e Google. Si svuota l’informazione, senza Bbc, Deutsche Welle e altri. Il Cremlino fa paura dentro e fuori, sta soffocando i russi, incastrati in una macchina del tempo che sta rigettando la Russia indietro di decenni. Ieri la Duma ha stabilito che chiunque diffonderà notizie false riguardo alla guerra, rischierà fino a quindici anni di carcere. Alcune testate  internazionali come la Bbc sono andate via e i russi rimangono sempre più stretti nel loro spazio mediatico fatto di propaganda. L’isolamento è fisico e anche mentale, il Cremlino punta a stringere i cittadini dentro alla sua bolla dove Vladimir Putin, ormai da tempo, ha costruito una verità storica in cui l’Ucraina è un posto da denazificare. Il presidente russo si è accorto che a questo i russi non  credono, così ha deciso di intensificare la repressione. I russi si sono svegliati dal torpore manifestato prima che la Russia attaccasse l’Ucraina, hanno protestato contro la guerra e si sono fatti arrestare per questo. E ora si ritrovano lontanissimi dal mondo, un paese sanzionato con i mercati bloccati. La storia si è interrotta e la Russia si ritrova isolata, più piccola, molto vuota. 

 

Questa settimana, prima che la Duma approvasse la nuova legge sulle notizie false, il Cremlino aveva impedito a due testate russe, la radio Ekho Moskvy (L’eco di Mosca) e l’emittente tv Dozhd (Pioggia), di parlare di guerra. Il primo problema era che la chiamavano “guerra” e non “operazione militare”, come vuole Putin. Il secondo è che cercavano di raccontare tutto, la brutalità e perfino le perdite dell’esercito russo, argomento che per Mosca è stato tabù fino a che il presidente  non ha  parlato delle vittime dei nazisti ucraini. Ekho Moskvy è una radio storica, è stata fondata mentre l’Unione sovietica veniva giù ed era diventata uno dei fari dell’opposizione. Il suo direttore di sempre Alexei Venediktov è anche molto contestato dai seguaci di Alexei Navalny per aver cercato di mantenere un equilibrio delicato tra la libertà e l’opposizione. L’equilibrio si è rotto con la guerra intollerabile, si è spezzato perché non è ammissibile che le convinzioni di un presidente aggressivo possano privare un popolo del suo futuro, possano strangolarlo. I russi sono immobili in una realtà senza materia e con la guerra che va avanti questa sensazione continuerà ad aumentare. Erano una nazione interconnessa, corsa nelle braccia del capitalismo e tutto si è bloccato all’improvviso. La grande Russia da sola è sempre più piccola, una federazione allo sfacelo, uno stato non riconosciuto per il semplice fatto che sta smettendo di esistere. Come gli ucraini che si sono svegliati un giorno e si sono ritrovati in guerra, i russi si sono svegliati in un’altra nazione. Alcuni filmati che girano sui canali telegram mostrano dei russi ai quali vengono sottoposte le foto della guerra, in molti non le guardano, tanti prima che venga loro chiesta qualsiasi cosa si affrettano a dire: “Io sto con Putin”. Altri fuggono via, altri ancora provano a spiegare perché c’è la guerra.  

 

Quando la tv Dozhd giovedì sera ha mandato la sua ultima trasmissione, alla fine, i suoi giornalisti hanno firmato una dichiarazione  con la scritta “no alla guerra”, si sono dimessi in diretta, poi l’emittente ha trasmesso il Lago dei cigni. E’ stato l’ultimo momento del canale indipendente ed è avvenuto sulle stesse note che uscivano dalla tv nell’agosto del 1991, durante il tentativo di colpo di stato che segnò l’inizio della fine dell’Unione sovietica. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.