Assimi Goïta (LaPresse) 

info-war

Il Mali sul terrorismo si affida a Mosca e caccia l'ambasciatore francese

Enrico Pitzianti

La Russia punta a occupare lo spazio lasciato vuoto dalla Francia sfruttando le debolezze del paese africano, che intanto ha comunicato al diplomatico transalpino Joël Meyer di avere solo 72 ore per lasciare il paese

Joël Meyer, l’ambasciatore francese in Mali, ha 72 ore per lasciare il paese. Da notare che ad annunciarlo non è stato un ministro o un membro del governo di Bamako, ma un presentatore della tv nazionale: è lo stile della giunta militare al potere nello stato dell’Africa occidentale, guidato dal colonnello Assimi Goïta a partire dallo scorso maggio. La collera della giunta maliana, sulla carta, sarebbe dovuta a un singolo episodio: le parole del ministro degli esteri francese, Jean-Yves Le Drian, che ha definito “illegittimo” il nuovo governo golpista. Effettivamente nel comunicato letto a capo chino dal presentatore televisivo si fa riferimento proprio a delle parole “ostili e oltraggiose” rivolte al popolo maliano, ma oltre alla mera formalità diplomatica dietro a questa frattura c’è un sostanziale allontanamento del Mali – e di tutta la regione – dall’ex potenza coloniale, la Francia. 

 

Il Mali è così instabile che, nel giro di soli nove mesi, ha subìto due colpi di stato. Per di più guidati dalla stessa persona: cioè proprio Assimi Goïta. L’ultimo golpe, di fatto, è servito a far passare il militare da vice presidente a presidente dello stato africano. Soltanto un mese fa il presidente francese, Emmanuel Macron, visitava la capitale maliana, e incontrava Goïta, per provare a salvare le sorti di un rapporto che era ormai sul punto di rottura. Il governo del Mali in quelle settimane stava per giocare due partite fondamentali: la prima era gestire i rapporti internazionali (compresa l’espulsione del paese dall’Unione africana causata dal golpe) e assicurare una transizione del potere verso un governo civile. La seconda, forse ancora più importante, era quella di formalizzare l’accordo con i mercenari russi del gruppo militare Wagner (un dettaglio per capire di chi stiamo parlando: il gruppo di chiama così per volere del fondatore, Dmitri Utkin, uno con tatuato sul collo il simbolo delle “SS” e affezionato all’idea che Wagner fu il compositore preferito di Hitler), incaricato di gestire il più grande pericolo percepito dalla popolazione del Mali: il terrorismo islamista.

 

A partire dal 2013 la missione Barkhane, a guida francese, è esistita proprio in funzione anti jihadista. La minaccia del terrorismo nel Sahel era – ed è tutt’oggi – tale che intere parti di territorio statale possono venire conquistate dai fondamentalisti. Era successo proprio al Mali, nel 2012, con la regione di Timbuctù sottoposta a una durissima interpretazione della legge islamica. A Barkhane poi si sono aggiunte diverse forze internazionali: i caschi blu di Minusma, gli addestratori europei dell’Eutm e poi Takuba, altra operazione europea pensata per sventare la minaccia di un Sahel che diventa identico, nella sostanza, alla Siria e l’Iraq sotto lo Stato islamico. Nonostante questo, i miliziani islamisti, sebbene sconfitti sul campo aperto, non hanno mai smesso di sferrare attacchi, soprattutto sui civili: una guerra a bassa intensità permessa dall’immensità del territorio semidesertico e dalle remote zone rurali in cui, evidentemente, non è difficile rifugiarsi. Così è stato possibile che in decine di attacchi terroristici siano morti migliaia di civili. Come quello ai villaggi di Karou, di Ouatagouna e di Daoutegeft: quaranta morti. Il rancore provocato dalla paura si è riversato su chi aveva promesso di risolvere il problema. Cioè politici al governo e militari occidentali.

 

A fronte di questo divorzio da Parigi, innescato dallo scontento, per Bamako arriva un nuovo innamoramento, quello per Mosca. Sappiamo che il Cremlino occupa gli spazi lasciati liberi dai suoi avversari, d’altronde il succedersi di influenze da parte di potenze estere è un’ovvietà della geopolitica. Funziona così. Quello che è meno ovvio, però, è che Mosca, per arrivare a questo punto non ha soltanto mandato avanti l’unità Wagner, ma ha compiuto diverse operazioni di info-war (anglismo per dire che ha fatto propaganda con precisi fini militari) sia in Mali sia in diverse parti del Sahel. L’occasione l’ha offerta il terrorismo islamista: incursioni cruente che, come risultato, hanno portato a migliaia di morti in pochi anni. La Russia ne ha approfittato per far passare un messaggio, ha detto: vedete che la protezione francese – e occidentale – non funziona? Il risultato è quello che alcuni analisti definiscono come un nuovo populismo africano: serve una soluzione forte, per risolvere problemi gravi, e questa soluzione è l’autoritarismo.
 

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