Corea, la Guerra congelata

Giulia Pompili

Il conflitto di quasi settant’anni fa finì con un armistizio, che ora Seul vuole trasformare in un trattato di pace. Ma le famiglie divise, i test atomici e le provocazioni, a dieci anni dalla presa del potere di Kim Jong Un, sono ancora lì 

Alle 10 del mattino di un lunedì di dicembre tv e radio iniziando a diffondere un messaggio inusuale: tra un paio d’ore ci sarà un annuncio importante. All’ora stabilita, tutte le televisioni in Corea del nord vengono accese. Sugli schermi appare Ri Chun Hee, la giornalista più importante della Korean Central Television. Indossa un hanbok, l’abito tradizionale coreano, nero; la spilla del Partito appuntata sul cuore. Inizia a leggere un messaggio con tono grave e solenne. “Con il più forte dolore dell’anima annuncio che il nostro caro leader Kim Jong Il”, pausa, “è morto”, pausa, “a causa di un improvviso malore mentre si recava sul campo il 17 dicembre del 2011”. Segue una pausa più lunga, e i singhiozzi si interrompono. “Sotto la leadership di Kim Jong Un trasformeremo questo dolore in forza e coraggio”. C’erano voluti quasi due giorni alla leadership di Pyongyang per annunciare alla nazione la morte del leader, il sessantanovenne Kim Jong Il, al potere da diciassette anni. 

 

È uno degli eventi storici più importanti da rileggere adesso, perché fu il primo vero scontro diretto tra America e Cina

 

Dieci anni dopo quell’evento che sconvolse gli equilibri dell’Asia orientale, il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha annunciato un accordo “di principio” tra Corea del nord, Corea del sud, America e Cina, per dichiarare formalmente finita la Guerra di Corea. Lo ha fatto due settimane fa a Canberra, durante una conferenza stampa congiunta con il primo ministro australiano Scott Morrison, lasciando intendere che tutti gli alleati sono per la prima volta d’accordo a trasformare l’armistizio che pose fine alle ostilità, nel 1953, in un trattato di pace. Se ne parla da tempo, di questa cosa di mettere un punto finale alla Guerra di Corea. Oggi viene definita “la guerra dimenticata”, perché è studiata sempre meno sui libri di storia occidentali, si è svolta in un periodo tutto sommato breve, e ha avuto un’eco sull’opinione pubblica internazionale minore rispetto alla Guerra del Vietnam, che iniziò formalmente un paio di anni dopo quell’armistizio e durò fino alla metà degli anni Settanta. Ma in realtà la Guerra di Corea è uno degli eventi storici più importanti da ristudiare adesso, perché si tratta del primo vero scontro diretto tra America e Cina – e non a caso sta tornando molto spesso nella propaganda contemporanea cinese. 

 

Il conflitto inizia all’improvviso, una domenica mattina di giugno del 1950. La Corea del nord è decisa a riconquistare l’intera penisola, che dalla fine dell’occupazione giapponese era stata divisa in due, sotto due sfere d’influenza: a nord l’Unione Sovietica, a sud l’America. Comunisti e nazionalisti, proprio come nella Guerra civile cinese. Tutto si svolge nel giro di pochi mesi: all’inizio la Corea del sud subisce l’invasione (è molto più povera del Nord), poi arriva il supporto americano sotto la bandiera delle Nazioni Unite. I nordcoreani vengono respinti oltre il 38° parallelo ma a quel punto America e Corea del sud decidono di tentare loro la riconquista della penisola, cacciare i comunisti e arrivare al confine con la Cina. La contromossa è di Mao, che manda in aiuto dei nordcoreani le truppe dell’Esercito popolare dei volontari, e così si torna al punto di partenza: il 38° parallelo.

 

A Panmunjom iniziano i negoziati per un armistizio, che vanno avanti per ben due anni perché le parti non si mettono d’accordo. Il 27 luglio del 1953 il generale americano William Harrison Jr., in rappresentanza del Comando dell’Onu, il generale nordcoreano Nam Il e il leader militare cinese Peng Dehuai si siedono nei rispettivi tavoli posizionati da un lato e l’altro della linea di demarcazione militare. La Corea del sud decide di non firmare, perché scontenta del mancato accordo sulla riunificazione (a guida nazionalista). Da allora, tutto è congelato a quel momento. La Corea del nord non ha più le capacità economiche e belliche per tentare una riunificazione, ma il suo programma nucleare e missilistico fa paura, e nella vita quotidiana dei sudcoreani ci sono parecchie questioni legate a quella tregua firmata nel 1953: prima fra tutte, il servizio militare obbligatorio per tutti i maschi. 

 

Del resto di tanto in tanto, in questi sessantotto anni, sono stati violati i termini dell’armistizio. E ogni volta il pericolo era che una reazione eccessiva, un errore di calcolo, potesse portare al ritorno di un conflitto su larga scala. Nel 2010, un mese prima della morte di Kim Jong Il, la Corea del nord ha bombardato l’isola sudcoreana di Yeonpyeong della Corea del Sud. A marzo dello stesso anno la Cheonan, una corvetta della marina sudcoreana, fu affondata dopo una violenta esplosione che in molti considerano un attacco da parte di un sottomarino nordcoreano. 

 

Di tanto in tanto, in questi sessantotto anni, sono stati violati i termini dell’armistizio. Un errore di calcolo e il ritorno di un conflitto

 

 

Le recenti dichiarazioni di Moon hanno fatto tornare la discussione sulla cosiddetta “questione nordcoreana”. E la verità è che soprattutto a Washington i dubbi su una eventuale normalizzazione della dittatura di Pyongyang sono parecchi. Finora il presidente Joe Biden è stato cauto finora nell’affrontare il dossier nordcoreano. Washington non vuole concedere più nulla alla Corea del nord senza avere in tasca un piano di nuclearizzazione verificabile. A ottobre 2020 il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha detto che America e Corea del sud hanno “prospettive in qualche modo diverse sulla sequenza precisa o sui tempi e le condizioni. Ma siamo fondamentalmente allineati sull’iniziativa strategica e sulla convinzione che solo attraverso la diplomazia saremo davvero in grado di realizzare progressi”. In lingua diplomatica significa: calma. E infatti è Moon Jae-in ad avere fretta. Tra poco più di tre mesi, a marzo, scade il suo incarico presidenziale. E la Costituzione sudcoreana prevede un solo mandato. Per entrare nei libri di storia come il presidente che ha fatto fare davvero la pace alle due Coree ha bisogno che l’armistizio si trasformi in trattato di pace. Adesso.

 

Eletto nel 2017, ex avvocato dei diritti umani, Moon è stato un leader fondamentale del Partito democratico sudcoreano. E’ arrivato dopo l’impeachment dell’ex presidente Park Geun-hye, conservatrice e figlia del presidente autoritario Park Chung-hee, quando il vento dell’antipolitica soffiava fortissimo sull’opinione pubblica sudcoreana. Moon Jae-in si è proposto al pubblico come il presidente “della gente comune”, “quello con cui andresti a bere un bicchiere di soju dopo il lavoro” (il soju è una specie di liquore autoctono della Corea del sud, molto popolare). Lo ha fatto, è stato popolare per un lungo periodo di tempo, fino a quando la sua priorità, la pace con la Corea del nord, non ha complicato le cose. Per Moon è una questione personale: “I miei genitori sono fuggiti dalla Corea del nord durante la guerra di Corea perché disprezzavano il regime comunista nordcoreano”, ha raccontato nel 2017 durante un’intervista alla Cnn. “Sono fuggiti in cerca di libertà e sono venuti in Corea del sud... ma hanno sempre desiderato tornare indietro e riunirsi con le loro famiglie”. Le famiglie rimaste a nord del 38° parallelo, divise da oltre 68 anni di stato di guerra. Quella di Moon è una condizione molto frequente in Corea del sud: ogni famiglia sudcoreana ha almeno un parente, un nonno, un cugino o un prozio al Nord. Quando Pyongyang vuole dialogare e concedere qualcosa alla politica e all’opinione pubblica del Sud, allora si svolge proprio sulla linea di confine un evento straziante: gli incontri familiari intercoreani. 

 

Dal 2000, quando sono iniziati come segno distensivo tra Seul e Pyongyang, ce ne sono stati 19. In Corea del sud funziona con una specie di lotteria, e chi vuole rivedere i propri parenti da quasi settant’anni bloccati al Nord si registra su un sito e i fortunati vengono estratti a sorte. Di solito ci sono un centinaio di posti per 65 mila membri di famiglie divise. Per molti di loro c’è una sola possibilità nella vita di rincontrare di persona fratelli, a volte figli, e ogni anno che passa è più difficile: secondo i dati del governo di Seul, la media d’età di chi ha parenti prossimi al Nord è di 81,5 anni. Lee Keum-seom, di 92 anni, ha partecipato all’ultimo incontro intercoreano che c’è stato nel 2018. Non vedeva suo figlio, Lee Sung-chul, da quando aveva 4 anni. Cho Hye-do e Cho Do-jae, due fratelli di 86 e 75 anni, hanno riabbracciato la loro sorella maggiore, Cho Sun-do, che ha 86 anni e vive in Corea del nord. L’anno successivo, la Corea del nord ha fermato tutte le comunicazioni con Seul, e con esse anche gli incontri familiari intercoreani. 

 

Quando è morto Kim Jong Il tutti si aspettavano il crollo dell’ultimo Muro: “lo stato impossibile” non avrebbe potuto reggere. E invece

 

Come dopo la morte del secondo leader nordcoreano Kim Jong Il – nessuno sa esattamente cosa potrebbe accadere se l’armistizio diventasse un trattato di pace. Perché negli ultimi dieci anni tutte le previsioni su un possibile collasso “naturale” del regime di Pyongyang sono state smentite. Tutte le strategie e le politiche internazionali nei confronti della Corea del nord – dalla “pazienza strategica” dell’Amministrazione di Barack Obama alla strategia della “massima pressione” sostenuta dai conservatori giapponesi fino all’improvvisazione della presidenza Donald Trump – non hanno portato a grandi cambiamenti. Tutti erano stati presi alla sprovvista dalla morte di Kim Jong Il. Non solo i cittadini nordcoreani, ma anche i sudcoreani, gli americani, i giapponesi. Quel giorno di dieci anni fa le Borse crollarono, i ministeri della Difesa di Seul e Tokyo ordinarono l’assetto d’emergenza. E’ nelle crisi come queste che può accadere qualunque cosa, soprattutto se non si hanno sufficienti informazioni a riguardo: l’intelligence internazionale non era riuscita a sapere prima del grande pubblico della morte del leader, e questo dimostrava che sapevamo ben poco di quello che succedeva davvero dentro ai confini della Corea del nord. Non solo. Un anno prima Kim Jong Il aveva annunciato che il suo successore sarebbe stato il suo terzo figlio maschio, Kim Jong Un, di cui si sapeva pochissimo, soltanto che era molto giovane, nato nel 1982 o forse nel 1983, e che aveva studiato in Svizzera. Un altro buco nero per le informazioni a disposizione del resto dei paesi dell’Asia orientale, e anche dell’occidente.

 

La parola che ripetevano più spesso gli osservatori in quei giorni era: incertezza. Il terzo successore di una dinastia dittatoriale era considerato troppo giovane per tenere unito il paese e salda la leadership. Kim Jong Il aveva guidato la Repubblica popolare di Corea cercando di rafforzare il suo potere pur non essendo un eroe di guerra come il padre – non aveva liberato la Corea dagli invasori giapponesi, non aveva tentato la riunificazione – e quindi era stato costretto a costruire attorno a sé un culto della personalità molto vicino alla mitologia. Secondo la versione ufficiale nordcoreana, Kim è nato sul sacro monte Paektu, camminava a neanche un mese di vita, parlava a due, ha scritto 1,500 libri e sei opere negli anni dell’università, e l’unica volta in cui ha giocato a golf ha completato 18 buche in 34 colpi (una leggenda che circola molto nell’ambiente golfistico internazionale: ma chi sei, il Caro Leader?). Mentre i nordcoreani venivano piegati dalle calamità naturali e dalla fame, Kim Jong Il importava per la sua leadership carne pregiata e alcol raffinato. Quando è morto tutti aspettavano il crollo dell’ultimo Muro: il regno oscuro oltre il 38° parallelo perdeva il suo secondo dittatore, e la Corea del nord, “lo stato impossibile”, non avrebbe potuto reggere. Il giovane Kim Jong Un ha smentito tutte queste previsioni. 

 

“I miei genitori sono fuggiti dalla Corea del nord durante la guerra di Corea perché disprezzavano il regime comunista nordcoreano”

 

Nel giro di pochi anni è riuscito non solo a rivendicare il suo potere, ma anche a fare quello che suo nonno e soprattutto suo padre non erano riusciti a fare: trasformare la Corea del nord in una potenza missilistica e nucleare e vedere il suo paese riconosciuto ufficialmente dall’America – è successo dopo aver incontrato, per ben tre volte, un presidente americano in carica, Donald Trump. In un momento in cui la Corea del nord sembra più chiusa che mai – è l’unico paese che sin dai primi giorni di pandemia  ha chiuso le frontiere anche ai connazionali, non accetta aiuti dall’estero, è blindata da due anni e anche le informazioni sono sempre più rarefatte – è  ancora lui a gestire tempi e modi del dialogo, anche con i cugini del Sud. 

 

Presto però, con le elezioni del 9 marzo a Seul, tutto potrebbe cambiare. E’ per questo che Moon Jae-in ha fretta. Il presidente democratico è un teorico di quella che si chiama “Sunshine policy”: la politica di apertura e normalizzazione dei rapporti con la Corea del nord. A teorizzarla fu il presidente sudcoreano Kim Dae-jung, il primo presidente sudcoreano a volare, nel 2000, a Pyongyang, per incontrare l’allora leader Kim Jong Il. Per quel primo Summit intercoreano della storia Kim ricevette il Premio Nobel per la Pace. Nel quinquennio successivo arrivò Roh Moo-hyun, mentore politico di Moon Jae-in: la Sunshine policy venne abbandonata con la fine del mandato di Roh e l’arrivo al governo di Seul dei conservatori, guidati da Lee Myung-bak. Se a marzo il Partito democratico sudcoreano dovesse perdere, l’eredità di questi cinque anni sarebbe cancellata. 

 

E poi c’è un ulteriore fattore che pesa sulla dichiarazione di pace: la guerra di posizione tra America e Cina. Pechino continua a essere uno sponsor economico molto vantaggioso per la Corea del nord, ma tra i due alleati non corre ottimo sangue (la leadership di Pyongyang è considerata una scheggia impazzita, al presidente Xi Jinping piace la prevedibilità). La Corea potrebbe essere, quasi settant’anni dopo, ancora una volta il terreno di scontro tra due visioni, due potenze, le prime due economie del mondo. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.