Quanto è più povera l'Ucraina senza il Kyiv Post

Micol Flammini

Il giornale delle battaglie è stato chiuso brutalmente ed è una pessima notizia (un’altra)

Il Kyiv Post in questi anni è sempre stato un affaccio. Era il giornale con cui gli stranieri guardavano dentro l’Ucraina e con cui gli ucraini guardavano loro stessi proiettati a livello internazionale. E’ il primo giornale in lingua inglese che parla di cose ucraine, che racconta i fatti, la politica e anche la cultura e quando è nato, nel 1995, è stato la scommessa di un editore americano, Jed Sunden, convinto del fatto che per uscire del tutto dall’Unione sovietica, l’Ucraina dovesse aprirsi al mondo, farsi capire, raccontarsi, farsi vedere, nelle sue bellezze e soprattutto nelle sue contraddizioni, che sono tante. Anche la chiusura del Kyiv Post è una contraddizione che racconta come la libertà di stampa in Ucraina ha ancora troppa strada da fare. Il nuovo editore del Kyiv Post, Adnan Kivan, imprenditore di Odessa nato in Siria, ha brutalmente chiuso il giornale da un giorno all’altro, ha comunicato la sua decisione, inaspettata, alla redazione che nei giorni scorsi lo aveva contestato per la sua idea di rilanciare il giornale con una nuova squadra e in altre lingue. Kivan ha detto che la chiusura è solo temporanea, si vuole riorganizzare, probabilmente vuole riaprire secondo le sue regole. Su Twitter la giornalista Anastasiia Lapatina ha scritto: “Il Kyiv Post è stato ucciso. Tutta la nostra squadra è stata licenziata dal proprietario, il magnate immobiliare di Odessa Adnan Kivan”. La chiusura del giornale è anche la rottura di una promessa, quella di un’Ucraina sempre più vicina all’ovest, che cerca di mettere a posto la sua democrazia, di farla crescere, quella nata dalle speranze di Euromaidan, che il Kyiv Post ha raccontato nelle sue tinte chiare e in quelle scure. 

 

Non è la prima volta che l’indipendenza del Kyiv Post viene attaccata: era successo nel 2011 quando alla presidenza c’era il filorusso Viktor Yanukovich e l’ex proprietario, il pachistano Mohammad Zahoor, aveva cercato di licenziare il direttore. Molti a Kiev vedono un nesso tra la chiusura e il presidente Volodymyr Zelensky, spesso al centro delle critiche del giornale. I redattori dicono che le pressioni vengono da lui, sempre più allergico a pareri negativi sul suo conto: lo staff del presidente-attore ha smentito. Il Kyiv Post ha compiuto ventisei anni il 16 ottobre, senza le sue storie si è rotto un passaggio nella comunicazione tra ovest e est e la faccia liberale, democratica, europeista e atlantista dell’Ucraina, senza quei dispacci, si è fatta più evanescente. Sunden aveva detto di voler regalare a Kiev il suo New York Times, lo aveva reso famoso, corposo e anche fastidioso e poi aveva attirato molti pettegolezzi quando sulle sue pagine aveva iniziato a pubblicare gli annunci di prostitute tra le pubblicità a pagamento, tra un’inchiesta e l’altra. L’Ucraina adesso non ha più il suo affaccio,  è costretta a guardarsi dentro e vede che la chiusura del Kyiv Post l’ha resa  po’ più piccola e anche più afona.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.