A lezione di dialogo

L'ambizione e i rischi dell'Università di Austin

Paola Peduzzi

Ecco la nuova casa dei superprofessori (mezzi cancellati) contro la cancel culture 

L’Università di Austin è la nuova casa dei cancellati, dei professori, degli intellettuali, dei giornalisti che hanno perso il proprio posto di lavoro a causa di una pressione woke e twittarola o che si sono dimessi per non subire più queste pressioni o che si battono perché la cancel culture non annichilisca dissenso, libertà di parola, dialogo. La nascita della Università di Austin è stata annunciata sul “baby-media” Common Sense di Bari Weiss, ex giornalista del New York Times che si dimise dicendo che Twitter  era il nuovo direttore del quotidiano americano, con un articolo di Pano Kanelos, che lascia la presidenza del St. John’s College per prendere quella di questo nuovo ateneo: a fine giornata, mentre tutti i soci fondatori festeggiavano e spiegavano la scelta di abitare insieme in questa casa, novecento probabili studenti avevano scritto per prendere informazioni sul percorso di studio (i corsi inizieranno l’estate prossima). 

 

L’ambizione è grande: riportare “la ricerca senza paura della verità” al vertice delle priorità di un centro educativo, “la virtù più importante”. La premessa è intuibile: le altre università non perseguono più la verità, e quindi l’ateneo di Austin nasce dalla consapevolezza di un fallimento, il sistema non si può più cambiare da dentro, proviamo a farlo con una nuova entità, facendo concorrenza ai templi dell’istruzione americana. Il  vantaggio competitivo è chiaro: noi siamo liberi e liberali, voi non più, gli studenti lo capiranno e ci sceglieranno. La postura ideologica dell’Università di Austin è evidente nelle parole di Kanelos e nei nomi dei soci fondatori, che da Bari Weiss allo storico Niall Ferguson, dal cofondatore di Palantir Joe Lonsdale (che è anche uno dei più grandi finanziatori) all’intellettuale Steven Pinker e moltissimi altri ancora, sono gli autoproclamati combattenti contro l’illiberalismo di sinistra e la purezza ricattatoria della wokeness. Vogliono creare uno spazio in cui si può pensarla diversamente l’uno dall’altro e dal mainstream, e convivere lo stesso. L’entusiasmo è alle stelle, così come il senso d’urgenza: non possiamo stare qui a lamentarci di continuo, dice la Weiss, questa è una proposta concreta, un’alternativa, che recupera il senso dell’educazione e anche del confronto, perché l’università avrà un campus, sarà un luogo per trovarsi, incontrarsi, discutere, recuperare il desiderio di parlarsi, contro l’autocensura che è diventata prevalente in moltissimi ambienti scolastici e lavorativi. E poi c’è Austin, che è il simbolo di un’effervescenza culturale, tecnologica e politica di un’America in grande trasformazione.

 

La notizia della nascita di questa università ha creato reazioni prevedibili e, in parte, comprensibili. C’è chi dice che non c’è nessuna novità nella scelta: parecchi atenei sono nati per dare rappresentanza a idee e quindi a studenti che altrove non si sentivano accolti e ascoltati – ed è noto che l’offerta universitaria americana è di un’eccellenza unica ma anche molto statica, ci sono le grandi università con fama mondiale e poi ci sono tutte le altre, variamente importanti, ma comunque non riconoscibili come quelle dell’Ivy League. La riconoscibilità, forse, è il punto più rilevante di questo dibattito: perché uno studente dovrebbe decidere di iscriversi all’Università di Austin? Per che cosa vuole essere riconosciuto? A oggi, sappiamo che ci saranno docenti molto influenti e dalle esperienze diverse, tenuti insieme dalla volontà di mantenere vivo il dibattito democratico nel paese.

 

Ma sappiamo anche che questa esperienza nasce da un istinto anti-sistema che ha una forte connotazione politica, perché gran parte del mondo anti woke denuncia l’illiberalismo di sinistra. Ci sono già derive mostruose, maneggiate dai megafoni del trumpismo e del murdochismo, per i quali contro la wokeness vale tutto, anche ciò che è falso. I soci fondatori dell’Università di Austin non corrono al momento questo pericolo,  fanno un lavoro meticoloso e libero di denuncia delle derive antidemocratiche di qualsiasi forma. Ma se si sceglie un’università per dare un messaggio cultural-identitario, non si fa in fondo lo stesso gioco di chi mette l’identitarismo davanti a ogni cosa? Per mantenere il dialogo e il valore  del dissenso in un campus è necessario andare oltre la riconoscibilità, ma tolleranza e dialogo non sono materie che si imparano a scuola, e certo non le impari se stai solo con persone che la pensano come te.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi