Numerazioni pericolose

Quanto fanno paura i censimenti nei Balcani

Guido De Franceschi

Contarsi fa paura perché può cambiare gli equilibri delicati della convivenza tra i diversi gruppi etnici e i loro diritti. La nevrosi delle “etnocrazie” e  il terrore per i numeri

Ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò. Una, quella serba, è cristiana ortodossa, parla una lingua che definisce “serbo” (ma che un tempo definiva serbo-croato), chiama il pane “hleb” e non “kruh”, usa lo spelling “kafa” per la parola “caffé” ed è abituata a scrivere perlopiù in cirillico. La seconda, quella croata, è cristiana cattolica, parla una lingua che definisce “croato” (ma che un tempo definiva serbo-croato), chiama il pane “kruh” e non “hleb”, usa lo spelling “kava” per la parola “caffé” e scrive solo in caratteri latini. La terza civetta, quella bosgnacca, è musulmana, parla una lingua che definisce “bosniaco” (ma che un tempo definiva anche serbo-croato), chiama il pane “hljeb” (ma anche “kruh”), usa lo spelling “kahva” per la parola “caffè” e scrive in caratteri latini.

Ma la complessa gestione del comò bosniaco, e cioè della struttura politica dello stato che si chiama Bosnia Erzegovina, non si organizza attraverso una conta-sorteggio effettuata attraverso una filastrocca, ma grazie a un sistema di pesi e contrappesi che cercano di bilanciare i rapporti tra quelle comunità etnico-religiose che negli anni Novanta si sono scontrate con le armi. Anche questo sistema ponderato deve comunque basarsi su una “conta” seppure di altro tipo, e cioè su un censimento che stabilisca quanti sono gli appartenenti alle diverse comunità, in quali località vivono e in che percentuale. Ma quando ci si avvicina al momento del censimento, nei Balcani si assiste a un’improvvisa “numerofobia”, fatta di polemiche preventive, boicottaggi, rimandi nell’avvio delle operazioni e impaludamento dei conteggi in prossimità della data prevista per la pubblicazione dei risultati.

In quell’area dell’Europa si percepisce con particolare intensità la diffidenza nei confronti dei censimenti proprio negli anni che finiscono con il numero uno. Infatti, gli ultimi censimenti jugoslavi si tennero nel 1961, nel 1971 nel 1981 e infine nel 1991, proprio nell’anno in cui la Slovenia e poi la Croazia ruppero le righe, dichiarando l’indipendenza e innescando il fuggi fuggi che sbriciolò la Repubblica federale socialista jugoslava, rimasta ormai orfana del suo creatore Tito, che nel mondo aveva capeggiato i “Non allineati”, ma in patria aveva invece ogni volta fatto riallineare di corsa – nel caso, anche con modi molto spicci – gli eventuali secessionisti. Per mantenere una periodicità decennale, alcuni dei paesi che sono nati dalla disgregazione jugoslava hanno quindi tenuto i loro censimenti nel 2001 o nel 2011, o almeno hanno tentato di farlo. E anche in questo 2021 un censimento è in corso in Macedonia del nord, un altro è appena iniziato in Croazia e un altro ancora si farà (pare) in Montenegro. In Serbia e in Kosovo, invece, dove pure il censimento avrebbe dovuto svolgersi quest’anno, si è invece deciso di rimandare al 2022. Il motivo del rinvio è la pandemia, ma la realtà è che il censimento in quella regione è sempre molto delicato.  

Per comprendere la ragione di tanta nevrosi connessa all’ipotesi di scattare una fotografia di gruppo ai cittadini di un paese basta guardare al Libano che, come la Bosnia, è uno stato “etnocratico”, e cioè basato su una divisione per nulla flessibile del potere tra le varie comunità. A Beirut il presidente della Repubblica deve essere cristiano maronita, il premier deve essere musulmano sunnita, lo speaker del Parlamento deve essere musulmano sciita eccetera. E anche la ripartizione dei seggi in Parlamento è calcolata in proporzione al peso numerico di ciascun gruppo etnico-religioso. 

In Libano la rilevazione demografica che sta alla base di questo sistema è il recentissimo censimento del 1932 e nessuno si sognerebbe di andare a verificare se per caso, negli ultimi 89 anni, non sia nel frattempo cambiato un qualcosina (e di verificare, per esempio, se i cristiani maroniti siano ancora la comunità più numerosa del Libano o se gli sciiti non abbiano recuperato un po’ di distacco dai sunniti). La cautela è comprensibile, visto che l’eventuale scoperta di una qualche alterazione rispetto allo status quo del 1932 avrebbe conseguenze che si possono riassumere in tre lettere maiuscole e un punto esclamativo: BUM! Ora, come sempre, il Libano non ha proprio bisogno di funzionari che, fisicamente o virtualmente, girino casa per casa con una cartellina piena di questionari e un sacco di domande sul “chi siete?” e “quanti siete?”: questi funzionari infatti diventerebbero degli involontari agenti del caos nel momento in cui, sommando le crocette dei loro questionari, i risultati si rivelassero discordanti da quelli di un secolo fa.

Torniamo ora in Bosnia. Lì, per motivi analoghi a quelli libanesi, c’è ad esempio una triplicazione della presidenza della Repubblica: ogni quattro anni nel Paese balcanico viene eletto un collegio formato da tre presidenti (uno serbo, uno croato e uno bosgnacco) che si girano la carica di primus inter pares ogni otto mesi, in modo che ciascuno dei tre ricopra per due volte la carica di “presidente dei presidenti” nel corso del mandato. Peraltro, già tanti anni fa, due cittadini bosniaci, il rom Dervo Sejdicć e l’ebreo Jakob Finci, ricorsero ai tribunali internazionali dicendo: “Ma come? Noi siamo forse cittadini di serie B visto che non possiamo diventare presidenti del nostro Paese per il solo fatto di non appartenere né alla comunità serba, né a quella croata né a quella bosgnacco-musulmana?”. Già nel 2009 la Corte europea dei diritti umani decretò che Sejdic e Finci avevano ragione. Ma a Sarajevo, senza troppa concitazione, stanno ancora capendo come recepire questa sentenza.
 D’altronde, non serve andare fino in Bosnia. Nel 1995, a Bolzano, fu respinta la candidatura a sindaco dell’indimenticato e indimenticabile Alexander Langer, perché in occasione del censimento del 1991 l’allora europarlamentare verde aveva rifiutato la dichiarazione di appartenenza a un gruppo linguistico (tedesco, italiano o ladino), una condizione necessaria per poter partecipare alle elezioni amministrative in Alto Adige. Langer, che si tolse pochi mesi dopo, era rimasto sconvolto proprio dalla guerra in quella Bosnia che avrebbe poi adottato, come tentativo di convivenza, un sistema non troppo dissimile da quello sudtirolese di cui lui sognava un superamento.

Nonostante tutto, però, grazie al sostegno e al pungolo dell’Unione europea, la Bosnia nel 2013 è riuscita a condurre un censimento, subito contestato, già in corso d’opera, da alcuni importanti leader politici della comunità serbo-bosniaca. Ma poi, passavano i mesi e passavano gli anni, e dei risultati del censimento non c’era traccia. Bruxelles dovette ricorrere alle minacce perché a metà del 2016 uscissero i dati definitivi che rivelarono una triste verità: la “pulizia etnica”, sia quella violenta che aveva originato questa espressione aberrante, sia quella più sottilmente pervasiva fatta del fastidio di vivere in un ambiente ormai “insalubre”, di una sensazione di isolamento e anche solo di banale stanchezza, aveva funzionato benissimo.

E’ un fenomeno che si osserva chiaramente già limitandosi a Sarajevo e a Banja Luka, e cioè ai capoluoghi della Federazione croato-musulmana e della Republika Srpska, le due “entità” che formano lo stato bosniaco. Nel 1991, pochi mesi prima dello scoppio della guerra, a Sarajevo i bosgnacchi musulmani erano il 50,5 per cento della popolazione della città, i serbi il 25,5 per cento e i croati il 6,7 per cento. Nel 2013 i musulmani bosgnacchi erano diventati l’80,7 per cento, i serbi il 3,7 per cento e i croati il 4,9 per cento. Il contrario è avvenuto a Banja Luka: lì, nel 1991, i serbi erano il 49 per cento, i musulmani il 19,3 per cento e i croati l’11 per cento, mentre nel 2013 la situazione era cambiata così: serbi 87,2 per cento, musulmani 5,4 per cento, croati 3 per cento. Questi dati sono come un bacio in fronte al triplice ultranazionalismo per il “buon lavoro” eseguito nella costruzione di recinti etnicamente compatti al loro interno. Ma il fatto che quelle che erano delle robuste minoranze siano diventate delle minoranze molto esigue ha due effetti opposti. Da un lato appare più che mai necessario proteggere i diritti di queste comunità molto fragili (ed ecco quindi che gli ultranazionalisti possono urlare a difesa dei fratelli e delle sorelle rimasti soli soletti nel posto sbagliato) e, dall’altro, appare però sempre più difficile sostenere la necessità di tutelare i diritti di queste minoranze ormai statisticamente quasi irrilevanti (ed ecco quindi che gli stessi ultranazionalisti possono urlare che non è necessario collocare la scritta anche in caratteri latini, o in caratteri cirillici, se i cittadini a cui questa scritta si rivolge sono rimasti quattro gatti). 

D’altra parte, se i numeri usciti dal censimento hanno confermato i timori che essi potessero contribuire all’entropia nazionalista, si è visto anche che i consistenti flussi migratori interni e verso l’estero dei cittadini bosniaci, non si sono sempre accompagnati a formali cambi di residenza. Altrimenti non si capirebbe come mai a Srebrenica abbia vinto le elezioni un sindaco serbo. Secondo il censimento del 2013, in questa cittadina – che è stata teatro di un grande eccidio di musulmani a opera delle milizie serbe, ma che per ragioni geografiche è poi rimasta dalla “parte sbagliata” della Bosnia, e cioè nella Republika Srpska – i cittadini musulmani sono ancora la maggioranza (il 54 per cento a fronte di un 45 per cento di serbi e di uno zero virgola di croati). Eppure nelle ultime amministrative ha prevalso un candidato serbo. E, no, non si è trattato di un lodevole sottrarsi degli elettori ai recinti eretti dai partiti nazionalisti, né di un episodio di virtuosa collaborazione interetnica, ma è probabilmente l’esito di un disallineamento tra i numeri che compaiono nel censimento e l’effettivo numero delle persone che vivono (e votano) a Srebrenica.

Nel caso della Croazia, invece, il problema è legato al fatto che alcuni diritti per le minoranze (ad esempio, quelli linguistici) scattano soltanto quando quella minoranza costituisce almeno un terzo degli abitanti di un determinato comune. Per quanto riguarda la minoranza italiana, che (dati del censimento del 2011) supera la soglia solo nel paese di Grisignana/Grožnjan dove costituisce il 39,4 per cento dei residenti e la sfiora senza raggiungerla a Buie/Buje (33,2 per cento), il riconoscimento a vari livelli della lingua, in virtù di decisioni autonome da parte delle amministrazioni locali istriane, si è esteso anche ad altri comuni in cui vivono comunità di italofoni più piccole. Ma in altre zone della Croazia ci sono invece stati seri scontri legati a quella soglia del 33,3 per cento.

L’esistenza di una quota precisa perché una minoranza possa avere determinati privilegi (come ad esempio la cartellonistica stradale nella propria lingua) non è di per sé una cosa strana. In Finlandia, ad esempio, una località acquisisce lo status di comune bilingue finlandese-svedese soltanto se i residenti appartenenti alla minoranza di lingua svedese superano l’8 per cento del totale (o le 3.000 unità). Se, in seguito, la quota scende sotto il 6 per cento, lo status di comune bilingue decade. Ma a Vukovar, città appartenente alla Croazia e collocata sul confine con la Serbia, lo strascico degli orrori bellici impedisce il rispetto delle quote stabilite per legge. Quando il censimento del 2011 rivelò che la quota di serbi residenti a Vukovar aveva superato la soglia di un terzo salendo fino al 34,8 per cento, si sarebbero dovute installare automaticamente le targhe in cirillico con il nome delle strade. Ma si scatenarono tali e tanti disordini che la questione non ha ancora trovato una vera soluzione (e le scritte in cirillico ancora non ci sono). Che cosa succederebbe se il censimento in corso rivelasse che nel frattempo la percentuale della comunità serba a Vukovar è cresciuta ulteriormente?

Intanto, come segnala Giovanni Vale su Osservatorio Balcani e Caucaso, a Fiume e in altre città croate sono comparsi dei poster, firmati da una misteriosa “Associazione croata dei veterani di guerra ortodossi”, che invitano i serbi di Croazia a dichiararsi al censimento come “croati ortodossi”. Da parte loro, molti leader politici serbi invitano invece i serbi di Croazia a partecipare al censimento indetto da Zagabria segnalandosi proprio come “serbi”, per far sentire il loro peso e far quindi valere i conseguenti diritti. Ma, nel caso del censimento in Kosovo del 2011, quegli stessi leader politici serbi convinsero invece quasi tutti gli appartenenti alla minoranza serba del Kosovo a boicottare la raccolta dei dati da parte del governo di uno stato, il Kosovo appunto, di cui il governo di Belgrado non riconosce l’esistenza (e così si ignora quale sia la reale consistenza della minoranza serba in quel paese). Allo stesso modo, peraltro, molti dei cittadini della Serbia che appartengono alla comunità bosgnacco-musulmana e a quella albanese si sottrassero a loro volta alle rilevazioni in occasione del censimento indetto da Belgrado sempre nel 2011. Chissà quindi che cosa avverrà nei censimenti serbo e kosovaro del prossimo anno.

Le leggi slovene, al di là dei numeri e delle percentuali, prevedono comunque due seggi in Parlamento per le minoranze linguistiche: uno per la comunità ungherese e uno per la comunità italiana, mentre nessun seggio, curiosamente ma non troppo, è destinato alle molto più consistenti minoranze serba, croata e bosgnacca. La Macedonia del Nord, come la Croazia, fonda invece il suo sistema su base numerica: la soglia perché scattino localmente e a livello nazionale alcuni diritti per le minoranze è posta al 20 per cento. Secondo il censimento del 2002 (l’ultimo disponibile, dal momento che quello del 2011 abortì in corso d’opera e i dati non vennero mai processati), gli albanesi, che sono la minoranza più numerosa e con cui la maggioranza macedone ha avuto più frizioni negli ultimi decenni, sono il 25,2 per cento della popolazione complessiva del Paese.

Al censimento ora in corso in Macedonia del Nord si intrecciano anche altri fenomeni comuni ad altri paesi della ex Jugoslavia. Ad esempio il depopolamento, che potrebbe riservare sorprese sgradevoli quanto al numero complessivo degli abitanti e che potrebbe contribuire a sbilanciare le proporzioni tra le diverse comunità. Oppure la crescente diffusione dei doppi passaporti, che può alterare i numeri reali. Secondo alcuni analisti la Bulgaria, che da ultimo ha sostituito la Grecia nel ruolo di nemico numero uno della Macedonia del Nord, sta “spingendo” perché molti cittadini macedoni si registrino come appartenenti alla pressoché inesistente minoranza bulgara, ingolositi dalla possibilità di poter poi far richiesta anche di un passaporto bulgaro, e cioè di un paese che fa parte dell’Unione europea. Mentre altre minoranze di fede musulmana presenti in Macedonia del Nord, come quella turca, temono che l’insistenza sulla registrazione etnica finisca per avvantaggiare i tentativi di “albanizzazione” di tutti gli altri islamici che vivono nel paese balcanico. 

E il Montenegro? Pare che anche lì, contrariamente alle aspettative, si svolgerà un censimento entro la fine dell’anno. A Podgorica, peraltro, per quanto riguarda lo scontro tra chi si sente montenegrino e chi si sente serbo-montenegrino, si sono già portati avanti. Questa divisione è già stata uno dei temi centrali su cui si sono giocate le elezioni del 2020 e nelle ultime settimane ha incendiato una bega nata dall’insediamento nella città montenegrina di Cetinije del nuovo metropolita Joanikije, scelto dalla Chiesa ortodossa serba. Un atto, questo, che non è piaciuto ai fedeli che si riconoscono nella Chiesa ortodossa montenegrina, che è nata nel 1993 e che non è per ora riconosciuta da nessuna altra Chiesa all’interno di un mondo, quello ortodosso, che è più incline al frazionismo dei gruppi marxisti-leninisti del Politecnico di Atene e in cui, non per nulla, va per la maggiore da molti secoli la parola “autocefalo”.

Ma partiamo da dati “certi”. Nell’ultimo censimento montenegrino, quello del 2011, quanti cittadini si sono definiti di etnia montenegrina? Il 45 per cento (i serbi erano il 28,7 per cento). E quanti cittadini montenegrini hanno dichiarato che la loro prima lingua è il montenegrino? Poco meno del 40 per cento, mentre quasi il 43 per cento ha indicato il serbo come suo idioma materno. Si capisce bene, quindi, perché si possa essere curiosi dell’esito del censimento, se ci sarà, in un paese in cui la maggioranza è, di fatto, una minoranza.

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