Tanti repubblicani rifiutano di riconoscere il risultato delle presidenziali del 2020. Nella foto, il 6 gennaio a Washington, prima dei tumulti 

Salvare la democrazia. Lezioni americane

Alessandro Maran

Dallo “stile  paranoide in politica” teorizzato da Richard Hofstadter, ed echeggiato spesso negli ultimi tempi, al “centro vitale” di Arthur Schlesinger Jr. Derive illiberali, populismo ed élite: due  libri che parlano anche all’Italia di oggi

Nei mesi scorsi Adelphi ha tradotto, per la prima volta in Italia, The Paranoid Style in American Politics, il classico della politologia con il quale, oltre mezzo secolo fa, Richard Hofstadter ha introdotto il concetto di “stile politico paranoide” che così spesso è echeggiato negli ultimi tempi. E proprio qualche settimana fa, Joshua Zeit, su Politico, ha raccomandato a democratici e “Never Trumpers” di mettere nella valigia delle vacanze il saggio di Hofstadter, assieme a un altro libro del periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale: The Vital Centre di Arthur Schlesinger Jr.

Non è un caso. Negli ultimi tempi, la democrazia liberale è in ritirata in tutto il mondo. Al punto che i paragoni con gli anni Trenta non sono più così inverosimili. In Israele, in Turchia, in Venezuela, in Brasile, nelle Filippine, in Ungheria (e perfino negli Stati Uniti, dove diversi stati a maggioranza repubblicana stanno introducendo misure che limitano l’accesso al voto e buona parte degli elettori e la stragrande maggioranza dei parlamentari repubblicani rifiuta di riconoscere il risultato delle elezioni presidenziali del 2020), non è più così scontato che la democrazia sia in grado di durare in eterno. E i lavori di Hofstadter e di Schlesinger, che hanno colpito Zeit per la loro attualità e preveggenza, forniscono, 70 anni dopo, un punto di partenza per una discussione sul nostro tormentato momento politico e alcuni consigli pratici per quanti, a sinistra, al centro e a destra, vorrebbero contrastare la ritirata della democrazia.
 
Quando nel 1949 scrive il suo libro, Schlesinger, racconta Zeit, era già celebre. Figlio dello storico di Harvard Arthur Schlesinger Sr, aveva vinto un premio Pulitzer per il suo secondo libro, The Age of Jackson, insegnava ad Harvard con suo padre, e dal 1947 collaborava con Eleanor Roosevelt, Hubert Humphrey, John Kenneth Galbraith e altri attivisti di rilevo dell’American for Democratic Action (Ada), un importante gruppo di pressione progressista. 

Come molti degli attuali analisti che stentano a penetrare i meccanismi strutturali e psicologici che danno impulso e motivano il populismo conservatore Maga, Schlesinger voleva comprendere le cause alla radice del totalitarismo, una definizione che (come avviene oggi con il populismo) molti liberal della metà del secolo scorso usavano come una sorta di jolly per sottintendere la violenza e l’autoritarismo sia del fascismo che del comunismo sovietico.

A differenza del padre, che non dava molta importanza all’ideologia e alle emozioni e rappresentava il comportamento politico come l’espressione degli interessi materiali razionali, il giovane Schlesinger credeva che l’illiberalismo, sia di destra che di sinistra, fosse profondamente radicato nell’alienazione e nello sradicamento prodotti dall’“economia industriale moderna” che aveva “consumato le vecchie sicurezze protettive senza crearne di nuove”; al punto che la gente avvertiva “frustrazione più che realizzazione, isolamento più che integrazione”. E, come spesso accade, alle prese con sentimenti di privazione e di isolamento, in molti prestavano orecchio a ideologie estremiste e violente che davano loro un falso senso di appartenenza e sicurezza.

Al centro dell’analisi di Schlesinger c’è, inoltre, la comprensione realistica dei limiti e delle fragilità umane. L’ascesa del fascismo e l’esperienza sovietica avevano insegnato alla sua generazione “che l’uomo è, effettivamente, imperfetto” e che un potere corrotto poteva scatenare “tutto il male nel mondo”. La mia generazione, scrive lo storico americano, “è stata portata a credere che la natura umana fosse benigna e il progresso umano inevitabile. I difetti della società, si supponeva, potevano essere curati con l’istruzione e il miglioramento degli assetti sociali. Il peccato e il male erano superstizioni teologiche irrilevanti per l’analisi politica”. Ma non era del tutto vero. 

Rifacendosi (come Martin Luther King) al lavoro di Reinhold Niebuhr, un influente teologo degli anni 50 (e cofondatore dell’Ada) che sosteneva che il male fosse inevitabilmente connaturato all’agire di ogni uomo, Schlesinger si convinse che una robusta rete di sicurezza sociale fosse senz’altro una scelta giusta (e necessaria per mitigare gli effetti turbativi della moderna economia industriale) ma non una sicura garanzia di solidità democratica. Insomma, le persone non avrebbero visto spontaneamente la luce (come spiegava MLK, per porre fine alla segregazione, bisognava metterle a disagio); e oltre a garantire robuste politiche di welfare, qualcuno avrebbe dovuto battersi con forza per la democrazia. Ma chi?

Sicuramente non la classe imprenditoriale, spiega Schlesinger, piuttosto caustico nei confronti del mondo degli affari americano i cui leader “risposero alla sfida del nazismo fondando l’American First Commitee”. “Senza eccezioni”, constatò Schlesinger, le misure predilette dalla National Association of Manufacturers, “davano un qualche genere di aiuto al business e all’industria” e “senza eccezioni” la principale lobby del mondo degli affari “mantenne una rigida opposizione contro ogni analogo aiuto indirizzato ad altri gruppi e contro ogni misura regolatoria che riguardasse l’industria”. Insomma, secondo Schlesinger la comunità del mondo degli affari non avrebbe partorito “la leadership in grado di salvare la società libera”. Schlesinger, ovviamente, non aveva una grande considerazione nemmeno della sinistra comunista. Diversi capitoli nel suo libro catalogano in dettaglio gli orrori della Russia sovietica e la doppiezza e la credulità dei comunisti americani, che riteneva costituissero una minaccia. 

Bisognava puntare sul “centro vitale”. Ma il “centro vitale” di cui parla non ha niente a che fare con il centro “malleabile” dei moderati circospetti che cercano di piacere a tutti e rinunciano a battersi (e meno che mai, ovviamente, con la formula politica imperniata sull’egemonia democristiana, che ha retto i governi in Italia dalle elezioni del 1948 alla nascita del centrosinistra). Al contrario, come ha poi ribadito, il termine è usato in senso globale e “il ‘centro vitale’ si riferisce alla lotta tra la democrazia e il totalitarismo, non alla lotta interna alla democrazia tra progressisti e conservatori, e neppure al cosiddetto ‘centro della carreggiata’ preferito in genere dai politici prudenti di oggi. Il centro della carreggiata non è per nulla il centro vitale; è un centro spento”. Il centro vitale si riferisce a quello spazio più ampio, che va dalla destra antifascista alla sinistra anticomunista, e si trova tra i due estremi totalitari (i due populismi, diremmo oggi). 

Non diversamente dagli appelli che oggi invocano un Partito repubblicano più leale al paese che a Donald Trump (e ne lamentano la tragica assenza), Schlesinger sosteneva la necessità di una destra non fascista, ma aveva perso la speranza che, nelle condizioni di allora, il conservatorismo americano riuscisse a sfuggire alle grinfie della sua componente “neanderthaliana”. In questo paese, sostenne, “abbiamo disperatamente bisogno del ritorno della responsabilità a destra – dello sviluppo di una destra non fascista in grado di collaborare con la sinistra non comunista nell’espansione della società libera”. Non diversamente, nel nostro piccolo, di recente Claudio Cerasa ha scritto sul Foglio che “servirebbe un’altra separazione delle carriere, tra una politica ostaggio della demagogia e una politica interessata a guidare la transizione del centrodestra dalla stagione del complottismo a quella del riformismo” e che la partecipazione al governo di emergenza da parte di Pd, Lega e anche M5s ha creato “uno spazio franco” all’interno dello scontro tra i partiti “che potrebbe trasformarsi in una delle eredità più importanti della stagione di Draghi”. Insomma, bisogna riconoscere (i comunisti italiani di una volta l’avrebbero capito al volo) che stavolta Michele Emiliano ha colto nel segno: “Salvini sta facendo un grande sforzo per delineare una visione di paese, ed è uno sforzo che ha dei costi politici”.

Del resto, le pagine di The Vital Center riflettono la convinzione dell’autore che solo una élite progressista del tipo di quella che aveva gestito il New Deal e le agenzie dedicate alla mobilitazione di guerra, in grado di affrontare con intransigenza le forze dell’illiberalismo, poteva puntellare le istituzioni democratiche. Un’élite che, per capirci, somiglia molto ai nostri Draghi boys.

Anche Richard Hoftstadter, che introdusse l’idea di uno stile paranoide nella politica americana in un articolo pubblicato sull’Harper’s Magazine nel 1964, si convinse, come Schlesinger, che “le persone non perseguono soltanto il loro interesse, ma che nella politica esprimono e, in una certa misura definiscono, sé stessi” e che “la vita politica agisce come cassa di risonanza dell’identità, dei valori, delle paure e delle aspirazioni”.

Diversamente da Schlesinger, che nel 1961 divenne un membro dello staff della Casa Bianca di John Kennedy, Hoftstadter, racconta Zeit, dedicò la sua carriera all’insegnamento e rimase a debita distanza dalla politica attiva. Si convinse che il “pregiudizio razionalistico” fosse “crollato sotto l’impatto degli eventi politici” e che gli storici potessero finalmente attingere ad altri ambiti delle scienze sociali per disegnare un ritratto più ricco della cultura politica, che andasse oltre a quella visione che considera le persone come meri attori razionali che danno la priorità ai loro interessi economici più ovvi. 

E con una migliore cassetta degli attrezzi a disposizione, Hofstadter si concentra sullo smottamento del movimento conservatore lungo la china della rabbia paranoide che dagli albori della Repubblica americana arriva al conservatorismo dei nostri giorni. Lo stile paranoide ha ovviamente a che fare con “grandiose teorie del complotto” e attingendo a documenti diversi (un discorso di Joseph McCarthy del 1951, un manifesto populista del 1895, una bordata anti-cattolica del 1855, un sermone di un ecclesiastico del Massachusetts nel 1798), Hofstadter trovò impressionanti elementi comuni nella politica americana: la paura delle macchinazioni e delle società segrete, il senso di privazione, l’insistenza sul fatto che degli attori invisibili stessero guidando il corso degli eventi. E si potrebbe tranquillamente aggiornare il suo saggio con un campione attuale dei deliranti e indecenti complotti di Q’Anon.

Ovviamente, lo “stile paranoide” non era (e non è) una specificità degli Stati Uniti e neppure del conservatorismo: la storia mondiale è piena di fissazioni “su una cospirazione globale da parte di gesuiti o massoni, capitalisti internazionali, ebrei internazionali o comunisti”. Ma in quel momento, denunciò Hofstadter, il conservatorismo americano era intrappolato nella sua morsa. Al punto che idee che una volta trovavano rifugio in un “curioso sottobosco intellettuale” (e che hanno anche a che fare con l’“ansia da status”: persone abituate a stare in vetta all’improvviso si sentono mancare il terreno sotto ai piedi), nel 1964, con la nomination repubblicana di Barry Goldwater diventarono, in modo allarmante, opinione dominante. 

Visto che la seconda estate di pandemia sta finendo e che il governo Draghi, che doveva essere la tomba della politica, sta invece costringendo i partiti a cambiare, The Vital Center e The Paranoid Style in American Politics, potrebbero contribuire a stimolare una salutare discussione. Proprio perché entrambi i volumi sollecitano il riconoscimento dell’illiberalismo per quello che è: un evidente ed effettivo pericolo per la democrazia costituzionale, non una leale opposizione con la quale si spezza il pane e si fanno compromessi. Inoltre, entrambi i libri hanno una visione realistica della particolare ricettività del conservatorismo americano (che vale anche per quello di casa nostra) alle teorie del complotto e a una politica dell’identità tossica. Entrambi, oltretutto, respingono l’idea che per far scendere la febbre sia sufficiente che le forze che si ispirano della democrazia liberale siano disposte a tendere la mano in segno di buona volontà (che basti, in altre parole, sforzarsi di “romanizzare i barbari”). A volte le persone sono razionali. Spesso (come abbiamo visto) non lo sono. Per questo Schlesinger ritiene che, in un mondo diviso tra propugnatori della democrazia e simpatizzanti del totalitarismo, un solido e determinato partito progressista e un partito conservatore antifascista siano di vitale importanza per la conservazione delle istituzioni americane.

Detto altrimenti, la democrazia è sostenuta da una impalcatura molto fragile. Può collassare, e in tanti luoghi in momenti diversi, è crollata. Il “centro vitale” non è il centro superato e spento della vecchia politica. E’ lo spazio della democrazia liberale. E’ il centro della società. E’ il baluardo contro la retrocessione democratica. Difenderlo è un imperativo. E c’è bisogno di una impenitente grinta liberale e di tanta determinazione. 
 

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