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L'Afghanistan tradito due volte. Un appello per non dimenticare

Valter Vecellio

Chi a Kabul è caduto, chi ancora combatte, chi verrà perseguitato. Non lasciamoli nell'oblio, anche se cederemo alla rassegnazione anche questa volta

Accadrà quello che altre volte è accaduto. Dei Montagnard, la rocciosa popolazione di fede cristiana che si è schierata con gli Stati Uniti al tempo della guerra in Vietnam, e che per questo (oltre che per la loro fede) ha pagato e paga prezzi altissimi, si ricorda qualcuno? E dei tibetani che un tempo si immolavano col fuoco, disperati perché nessuno, a parte un incompreso Marco Pannella, ne raccoglieva il grido di dolore? Ma si possono citare anche le fiere guerrigliere curde, per settimane idolatrate da settimanali patinate. Hanno lottato contro i fanatici dell’ISIS, lottano ancora. Ma dove, come, chi? Sono state comunque tradite due volte, quelle ragazze e quel popolo: prima usati dall’Occidente, poi dimenticati.

 

Accadrà anche per gli afgani, i tanti abbandonati alle grinfie dei Taliban, il cui pregio (si fa per dire), è di fare quello che dicono, anche se non dicono quello che fanno. Dunque, la sharia, il burqa, l’obbligo della barba, niente musica, delitti e violenze contro gli oppositori… Nella provincia di Herat, dove ha operato il contingente italiano, c’è un edificio blu, una sorta di cubo. E’ una scuola intitolata a Maria Grazia Cutuli, l’inviata del “Corriere della Sera” uccisa in un’imboscata il 19 novembre 2001 assieme a Julio Fuentes di “El Mundo”, Azizullah Haidari e Harry Burton di “Reuters”. In quella scuola studiavano un migliaio di ragazzi, maschi e femmine insieme. Fino a poco tempo fa.

Gli Stati Uniti, l’Occidente (Italia compresa) hanno abbandonato un popolo cui avevano dato barlumi di speranza. Ora si invocano aiuti umanitari; fieramente si proclama che abbiamo il dovere di  soccorso e salvare le donne, i bambini (come, senza “ingerire”, e protetti come e da chi, nel farlo, non si chiarisce). L’ipocrisia giunge al punto da teorizzare che siano aiutati, purché restino nei campi profughi dei paesi vicini dove hanno cercato rifugio. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

 

Presto dimenticheremo, o peggio: smetteremo di provare un sentimento di rabbia o indignazione, e cederemo all’indifferenza e alla rassegnazione: così è, così è stato, così sarà. Sempre amaramente attuale il sermone del pastore Martin Niemoller: “Quando vennero per gli ebrei e i neri, distolsi gli occhi. Quando vennero per gli scrittori e i pensatori e i radicali e i dimostranti, distolsi gli occhi. Quando vennero per gli omosessuali, per le minoranze, gli utopisti, i ballerini, distolsi gli occhi. E poi quando vennero per me mi voltai e mi guardai intorno, non era rimasto più nessuno...”.

Per questo, è importante quello che propone il giudice Guido Salvini su “Il Foglio” del 27 agosto, un piccolo argine allo tsunami di indifferenza complice e alla rassegnazione. “Viene in mente”, annota Salvini, “che quasi nessuno ha ricordato i 53 militari italiani, in gran parte giovani alpini, caduti in Afghanistan in quella che almeno per noi è stata una missione di peacekeeping. Sono morti per niente? Forse. Forse con la loro presenza hanno però fatto intravedere a tanti cittadini di quello sventurato paese che si può vivere in modo diverso, in pace, e senza il rumore delle armi in sottofondo”. Salvini (e credo abbia ragione) sostiene che quei 53 fratelli hanno diritto a un Memorial. Potrebbe essere una cosa molto semplice, come il “Muro” eretto a Washington per i caduti in Vietnam: il nome, la data di nascita, quella di morte. Molto “semplice” e facile da realizzare. Poi, agli amici del “Foglio” analoga cosa: possibilmente le foto, i nomi, i dati. “Non dimentichiamoli e non lasciamo all’oblio quello che hanno tentato di fare”, scrive Salvini. Mi unisco volentieri ai suoi voti e al suo auspicio.

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