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Nel Sahel gli europei possono rovesciare lo scenario afghano

Jean-Pierre Darnis

Dopo la ritirata occidentale in Afghanistan bisogna soffermarsi sulle conseguenze per l’impegno militare internazionale. Uno sguardo in Africa 

Dopo la ritirata occidentale in Afghanistan bisogna soffermarsi sulle conseguenze per l’impegno militare internazionale. Il fallimento dell’intervento in Afghanistan potrebbe segnare la fine del modello “totale” che era stato declinato dagli Stati Uniti dalla guerra in Iraq dal 2003 in poi. In questo contesto la volontà di contrastare il terrorismo portava a un progetto di cambio di regime tramite un intervento militare pesante, che poi avrebbe dovuto produrre stabilità. Ci si può interrogare sull’utilità e la legittimità degli interventi militari per lottare contro il terrorismo. Ma se sgombriamo il campo da questa domanda, possiamo anche formulare dubbi sull’efficienza delle missioni con l’obiettivo di “cambio di regime”.

 

Oggi bisogna porre con insistenza la questione della situazione nel Sahel e in Africa. Esistono importanti focolai di violenza terroristica nella cosiddetta zona delle tre frontiere fra Mali, Niger e Burkina Faso, con gruppi che si rifanno ad al Qaida o all’Isis e rappresentano non soltanto una minaccia per le popolazioni autoctone ma anche un fattore indiretto ma molto concreto di minaccia per l’Europa tramite gli effetti di destabilizzazione a catena che provoca, con l’aumentare di profughi e della pressione migratoria. Lo scenario di instabilità nel Sahel ha poi ripercussioni al Nord fino al Maghreb e quindi in Libia. In questo pericoloso contesto di destabilizzazione la Francia ha tentato dal 2013 in poi di mantenere il quadro di sicurezza globale con un sostegno ai paesi della zona tramite un dispositivo militare, raggiunta anche in tempi recenti da partner europei come Germania e Italia. Segue una logica non molto diversa da quella che è stata adoperata in Afghanistan, dove l’erogazione di sicurezza viene vista come un fattore propedeutico per lo sviluppo di una vita sociale e politica che possa definire un quadro di stabilità in grado di innescare il miglioramento del benessere delle popolazioni locali. Parigi prosegue anche una storica politica di sostegno agli stati africani usciti dalla decolonizzazione come illustra l’automatico allinearsi con il regime del Ciad, nelle sue varie incarnazioni della dinastia Déby.

Ma le crisi endemiche in Mali o in Ciad hanno fatto sorgere molti dubbi sulla bontà dello sforzo di messa in sicurezza di fronte a dinamiche locali divergenti, provocando anche un recente monito da parte di Emmanuel Macron con l’intento di riconsiderare il dispositivo. Tra l’altro questi stati sono spesso divisi da profonde faide tribali che non corrispondono affatto alle frontiere tracciate dopo la decolonizzazione.

 

Le sofferenze delle popolazioni locali oggetto di violenze terroriste non possono lasciare indifferenti e bisogna anche avere presente il caso della repubblica Centraficana dove dopo il ritiro francese è subentrato il binomio Russia (cooperazione militare)/ Cina (cooperazione economica). Una ritirata pura e semplice potrebbe quindi creare più problemi che soluzioni. D’altro canto potrebbe essere necessario rivedere le proprie pretese, ovvero uscire dal modello di trasformazione di regime: il binomio sicurezza, democrazia e sviluppo, ineccepibile sulla carta, non soltanto fa fatica a trovare appigli in contesti dove le istituzioni statali sono assai deboli, ma appare anche compromesso dall’associazione con interessi occidentali. Inoltre il livello di corruzione di alcuni regimi è tale che si frantumano le velleità progressiste.

Va quindi cercata una via mediana dove rimane essenziale sia la presenza della forza come strumento attivo di contrasto ai gruppi violenti sia lo sviluppo di politiche culturali, economiche e sociali. Bisogna essere molto prudenti nel formulare piani che vorrebbero che gli stati locali sviluppino una capacità effettiva di produzione di sicurezza per suscitare una loro autonomia nella gestione delle crisi. Meglio realisticamente pensare a un modello più modesto nelle ambizioni ma che non porti poi a risultati talmente catastrofici che l’unica via rimane un’uscita all’afghana. Si tratta di una lezione che avrà un’applicazione immediata nel contesto africano, anche perché i vari gruppi jihadisti si sentiranno ringalluzziti dal successo talebano contro gli Stati Uniti e potrebbero subito voler testare la resistenza dei vari contingenti presenti sul campo, inclusi quelli italiani recentemente aumentati con l’impegno militare in Niger e la partecipazione alla task force Takuba in Mali. Ma questa volta gli europei dovranno vedersela da soli, e magari dimostrare che hanno una volontà e visione diversa da quella statunitense.
 

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