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La storia del passaggio di Pelješac, che irrita molto la Bosnia

Guido De Franceschi

C’è un ponte che rende la Croazia un po’ più unita, e i Balcani un po’ più divisi

Un topos un po’ stucchevole pretende che i mari uniscano più di quanto non separino. Ma anche i ponti possono dividere più di quanto non uniscano. E’ il caso del ponte di Pelješac, che connetterà Dubrovnik al resto della Croazia ma finirà per creare un’ulteriore separazione nel cuore dei Balcani.

 

Questo ponte lungo 2,4 chilometri –  di cui è stato montato da pochi giorni il 165esimo e ultimo segmento e che sarà transitabile da giugno – unirà sì due parti finora divise del territorio croato, ma contribuirà anche ad allontanare sempre più la Croazia, che fa parte dell’Unione europea e che a breve, probabilmente, entrerà nello spazio Schengen, dalla Bosnia, che dell’Ue invece non fa parte.

Che il ponte di Pelješac sia un elemento di unione è fuor di dubbio: finché non sarà percorribile, la Croazia rimarrà spezzata in due. La sua porzione più meridionale, la regione Dubrovnik-Neretva, è infatti separata dal resto del paese dall’unico sbocco sul mare della Bosnia, il corridoio di Neum, che si affaccia sull’Adriatico occupando solo venti chilometri di costa.

Quando, un centinaio di chilometri dopo Spalato, l’autostrada che percorre la Dalmazia si interrompe all’improvviso, chi viaggia via terra da nord verso Dubrovnik ha solo due opzioni. La prima è scendere al porto di Ploce e, dopo aver ammirato come la combinazione di aria salmastra e di cattiva manutenzione abbia un perfido effetto sul cemento armato dell’architettura tardo-brutalista jugoslava, prendere un ferry. Questa nave, in un’oretta, porta a Trpanj, sulla penisola croata di Pelješac. Da lì bisogna attraversare, descrivendo diecimila curve, alcune montagne, per poi planare sui vigneti di Pelješac, che, seppur rinomati, non offrono vini che possano rivaleggiare con il pošip e il grk prodotti lì di fronte, sull’isola di Korcčula. Poi, dopo aver svalicato un’altura presidiata da uno dei molti spomenik (i monumenti titini alla Resistenza) che punteggiano anche le zone più impervie dell’ex Jugoslavia, si torna a costeggiare il mare. In totale, da Trpanj a Dubrovnik ci vogliono più di due ore per fare 106 chilometri. Un percorso piacevole, se sei in vacanza.

La seconda opzione è entrare in Bosnia, uscendo dall’Ue, attraversare il paese di Neum, e rientrare poi in Croazia (e quindi nell’Ue). Un doppio passaggio di dogana che è soltanto una seccatura quando tutto va bene ma che diventa una faccenda di ore nei mesi estivi. Quando poi la Croazia entrasse nell’area Schengen, e fosse quindi tenuta a controllare con molto più scrupolo tutti i passaporti, il doppio passaggio di quella frontiera si trasformerebbe in un incubo.

 

Il corridoio di Neum è il lascito di antiche beghe confinarie. La Repubblica di Ragusa, nel XVII secolo, cedette quella porzioncina di costa agli ottomani per avere un cuscinetto settentrionale che la proteggesse dagli attacchi della Serenissima. La pace di Carlowitz (1699) e quella di Passarowitz (1718) cristallizzarono la situazione. In seguito, nell’Impero asburgico prima e poi nelle due Jugoslavie (il Regno dei Karageorgevic e la Repubblica socialista di Tito), il confine di Neum si ridusse a essere una banale “frontiera interna” tra regioni appartenenti allo stesso stato.

Poi, però, con il collasso centrifugo della Jugoslavia, il corridoio di Neum è diventato una frontiera vera tra la Croazia, la Bosnia e un’altra volta la Croazia. A rendere tutto ancor più surreale, nel censimento del 2013 il 97,6 per cento degli abitanti della municipalità bosniaca di Neum si è dichiarato croato-bosniaco (dei 4.960 abitanti solo 63 sono bosgnacchi musulmani e appena 29 sono serbo-bosniaci).

Davanti a tanta insensatezza geografica, un confine internazionale che separa i croati di Croazia dai croati di Bosnia, è quindi comprensibile che quest’estate, dalle migliaia di auto in fila da un lato e dall’altro della frontiera di Neum, trafitte da un sole che arroventa con ancora più ferocia del solito i Balcani, molti occhi rivolgano sguardi di desiderio al ponte di Pelješac, che è lì a un passo, quasi pronto. Ed è altrettanto comprensibile che la Croazia abbia sempre perseguito una qualche soluzione per bypassare via terra quell’accesso al mare a cui la Bosnia, altrettanto comprensibilmente, tiene moltissimo.

 

Per non irritare troppo il governo di Sarajevo, si era pensato anche a un tunnel sottomarino, ma l’idea è stata scartata per ragioni di fattibilità. Poi si vagheggiò la costruzione di una strada “chiusa”, tipo quella che conduceva a Berlino ovest, ma si è capito che i bosniaci non avrebbero mai accettato che il loro territorio fosse attraversato da una simile ferita. E quindi la Croazia ha deciso per il ponte.

La Bosnia ha protestato a lungo. “Così ci sbarrate il nostro accesso al mare aperto”, si lamentava Sarajevo (e, in effetti, le imbarcazioni dirette a Neum ora devono per forza passare tra i piloni). “Ma se nel vostro unico porticciolo possono attraccare solo barche poco più grandi di un gommone e il ponte ve lo abbiamo fatto alto 55 metri!”, rispondevano da Zagabria. “E in caso di guerra?”, rilanciavano da Sarajevo – e in questa regione dell’Europa a chi pronuncia la parola “guerra” non si risponde “bum!”. Le proteste bosniache però erano, come spesso accade, disarticolate e dirette perlopiù a rinfocolare i sempiterni scazzi interni. D’altra parte, ai croati-bosniaci (molti dei quali hanno anche il passaporto croato) il ponte, sottosotto, sta bene e ai serbo-bosniaci, che vivono lontani da Neum, del ponte non frega nulla: era quindi solo la maggioranza bosgnacco-musulmana a difendere l’onore della patria con un po’ più di convinzione.

 

Alla fine, comunque, la Croazia ha avuto il benestare dell’Ue che ha finanziato 357 dei 550 milioni di euro necessari alla costruzione del ponte. La gara d’appalto, nel 2018, è stata vinta dall’impresa statale cinese China Road and Bridge Corporation. Ed è stata la prima volta che Pechino, che ha grandi interessi nei Balcani, si è aggiudicata la realizzazione di una grande infrastruttura pagata dall’Ue. Peraltro anche più di recente – dopo che, nella scorsa primavera, la Lituania ha abbandonato la cosiddetta 17+1, e cioè la Cooperation between China and Central and Eastern European Countries, per protestare per lo scarso rispetto dei diritti umani da parte di Pechino – la Cina ha mostrato rinnovata attenzione proprio per la Croazia.

Ora resta solo da decidere il nome del ponte di Pelješac che, grazie ai quattrini dell’Ue e alla manovalanza cinese, unisce la Croazia e separa ulteriormente, in modo un po’ triste, i Balcani, come se la distanza fra chi si è agganciato alla locomotiva di Bruxelles e chi è rimasto a piedi fosse in qualche modo irreversibile. C’è chi ha proposto di intestarlo a Marko Polo, che ha costruito “ponti” tra l’Europa e la Cina. Perché in Croazia, secondo una teoria non più fondata di quella di Gheddafi che riteneva che Shakespeare fosse libico, sostengono che Marko Polo con la “k” sia nato a Korčcula.
 

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