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La strategia dell'Ue contro la pandemia. Un libro

Francesco Guarascio

Il 10 giugno del 2020 la Commissione europea delineò il piano per le trattative con le case farmaceutiche e per assicurarsi tra i quattro e i sei vaccini potenziali. "La farmacia del mondo" racconta le mosse di Bruxelles, dopo i ritardi e gli egoismi della prima fase pandemica

Pubblichiamo alcuni estratti di “La farmacia del mondo”, scritto da Francesco Guarascio, giornalista esperto di affari europei a Bruxelles: è il racconto, con molti documenti e informazioni, della strategia dell’Unione europea contro la pandemia, in particolare quella dei vaccini. L’ebook “La farmacia del mondo” è in vendita sul sito del Foglio e su Amazon. 


 

 

"La situazione è sotto controllo”. Così un funzionario Ue descriveva in una riunione a porte chiuse la preparazione europea al possibile diffondersi del nuovo coronavirus in Europa. Era il 5 febbraio 2020. Il virus aveva già dato prova della sua pericolosità mettendo in ginocchio la Cina, dove era stato identificato il dicembre precedente. Due settimane prima di quella riunione, Pechino aveva adottato misure estreme per contenere i contagi costringendo a un confinamento senza precedenti circa 60 milioni di cinesi a Wuhan, epicentro dell’epidemia, e in altre città della circostante regione di Hubei.

 

Il 30 gennaio, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva dichiarato che il nuovo coronavirus rappresentava un’emergenza sanitaria di rilievo internazionale. Era un avvertimento formale molto grave, lanciato per esempio nel 2009 in occasione della pandemia da febbre suina, le cui vittime sono state stimate in circa mezzo milione. Sebbene fino a quel momento i casi noti della sindrome respiratoria che sarebbe da lì a poco stata battezzata Covid-19 si concentrassero largamente in Cina, era chiaro già allora che il virus era arrivato in Europa. Si registravano una decina di casi in Francia, Germania e Finlandia, e il 31 gennaio l’Istituto Superiore di Sanità aveva rilasciato un comunicato sui primi pazienti in Italia: due turisti cinesi atterrati a Milano una settimana prima e ricoverati allo Spallanzani di Roma. 

 

Nonostante tutti questi segnali preoccupanti, le autorità nazionali ed europee ostentavano fiducia. “C’è un forte livello di preparazione negli stati membri,” la Commissione riferiva agli ambasciatori nella riunione del 5 febbraio, secondo un resoconto riservato dell’incontro. Più che fare un’analisi della situazione, Bruxelles essenzialmente riportava quanto riferitole dalle capitali. La settimana precedente, il 27 gennaio, gli esperti sanitari dei governi europei avevano infatti detto di essere pronti a far fronte al virus. Esistevano alcune lacune non meglio specificate, ma la conclusione era che tutti erano ben preparati. “Gli stati non hanno segnalato il bisogno di dispositivi addizionali di protezione individuale,” cioè mascherine, guanti o occhiali protettivi, indica un resoconto della riunione, a conferma della generale atmosfera di tranquillità.  

 

A dispetto delle rassicurazioni, la Commissione in quell’incontro insiste però per lanciare le procedure per l’acquisto congiunto del materiale protettivo. E’ un riflesso tempestivo che, se prontamente sostenuto dai governi, avrebbe probabilmente garantito l’accesso rapido a vitali dispositivi di protezione di cui a breve si sarebbe avvertita una gravissima scarsità per contrastare un virus molto contagioso. Ma gli appelli cadono nel vuoto. Il 31 gennaio in una nuova riunione di esperti sanitari europei, la Commissione prende atto ancora una volta che “nessun paese ha finora richiesto supporto per ottenere dispositivi addizionali”. Gli unici ad avanzare qualche minima preoccupazione sono i rappresentanti di quattro governi, non identificati nel resoconto della riunione, che segnalano il “potenziale” bisogno di materiale in caso di peggioramento della situazione epidemiologica in Europa.

 

Ma non c’è una richiesta esplicita e quindi non parte nessuna procedura di acquisto. Si perde tempo prezioso. Il clima è talmente sereno che analisi economiche interne dei servizi Ue stimano a metà febbraio un impatto “trascurabile” sull’economia europea di quella che allora è definita l’epidemia cinese, e addirittura si spingono a indicare possibili ricadute positive per l’Europa in termini di rafforzamento del settore industriale grazie al rimpatrio di alcune capacità produttive dalla Cina. Le previsioni economiche pubblicate dalla Commissione Ue il 13 febbraio confermano questa analisi rosea stimando una crescita del Prodotto interno lordo Ue dell’1,4 per cento nel 2020. Gli economisti della Commissione prevedono che gli effetti negativi del Covid-19 sarebbero stati circoscritti al primo trimestre dell’anno e con ripercussioni “relativamente limitate” sull’economia globale. 

 

Già a fine marzo però, in un documento per uso interno, la Commissione è costretta a rivedere al ribasso le sue stime economiche indicando un possibile calo del Pil dell’Ue di circa l’1 per cento a causa della pandemia. E’ finalmente un’analisi più realistica, ma ancora fortemente lontana dalla tragica realtà. Ci vorranno le previsioni economiche del maggio 2020 per avere un quadro più verosimile. Con gli ospedali pieni e dopo prolungate misure restrittive sulle attività economiche, Bruxelles sconfessa a quel punto le sue precedenti previsioni e indica un crollo del Pil Ue del 7,4 per cento nel 2020. Anche sul piano delle misure sanitarie a fine febbraio la situazione precipita. I casi e le vittime si moltiplicano rapidamente, con l’Italia epicentro dell’epidemia in Europa, e le autorità cominciano a prendere misure concrete di prevenzione. Il 23 febbraio il governo mette in quarantena dieci comuni in Lombardia e uno in Veneto. Il giorno successivo il ministero della salute aggiorna le linee guida per i medici e il personale sanitario in contatto con casi sospetti. Sono ora tenuti a indossare mascherine. Fino a quel momento l’uso di dispositivi di protezione personale era raccomandato ma non obbligatorio.

 

La Commissione europea viene finalmente autorizzata a comprare materiale protettivo per conto dei governi europei e il 28 febbraio, con un mese di ritardo rispetto alle prime discussioni sul tema, lancia un bando internazionale per l’approvvigionamento, anche se non tutti gli stati Ue vi aderiscono. Una decina decidono di andare per conto proprio. E’ l’inizio di quella che diventerà una concorrenza spietata tra gli stessi stati Ue e con altri partner internazionali per accaparrarsi dispositivi divenuti nell’arco di pochi giorni indispensabili, e la cui produzione si concentra in Cina. 
Intanto le misure restrittive si moltiplicano in tutto il mondo e l’11 marzo, per molti troppo tardi, il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus parla per la prima volta esplicitamente di pandemia. E’ l’indicazione formale che non si tratta più di un’emergenza circoscritta alla Cina con rischi soltanto potenziali per il resto del mondo, ma è ormai una vera e propria crisi sanitaria globale.  

 

Dalle titubanze iniziali si passa alla corsa ai dispositivi necessari per contrastare il virus. L’Europa lancia il 17 marzo un secondo bando per l’acquisto di nuovo materiale protettivo, e un altro per l’approvvigionamento di ventilatori polmonari per i pazienti più gravi. Il 18 marzo un nuovo bando viene lanciato per dispositivi, reagenti e altri prodotti chimici per effettuare test. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, sarà troppo tardi per assicurarsi rapide forniture in un mercato divenuto troppo affollato di acquirenti e con pochi venditori. Le procedure di acquisto si riveleranno inoltre eccessivamente farraginose e la Commissione europea darà prova di scarsa esperienza nel condurre le trattative di acquisto, secondo diplomatici europei e rappresentanti di aziende coinvolti nei negoziati. Il bando per l’acquisto di test per rilevare il virus è l’ennesima conferma di quella che fino allora era stata una grave sottovalutazione del rischio.

 

Appena un mese e mezzo prima, gli esperti sanitari Ue dicevano che erano state messe a punto misure per garantire a tutti i paesi europei l’accesso a laboratori per la diagnosi tempestiva del Covid-19. Ma di fronte al diffondersi della pandemia, l’Europa si scopre del tutto impreparata. Manca tutto, dai test individuali al materiale per analizzarli.  Le carenze più gravi riguardano però i dispositivi di protezione individuale, in quantità insufficiente persino negli ospedali e nelle case di riposo per anziani, dove il personale medico e di sostegno è esposto al rischio di contagio e spesso si trasforma suo malgrado in vettore del virus. Contribuisce così a una vera e propria ecatombe nelle case di riposo.

 

Intanto la concorrenza globale per il reperimento del materiale necessario è diventata fortissima. In un documento per uso interno, datato 25 marzo 2020, la Commissione europea stima che i tradizionali canali per l’approvvigionamento di dispositivi protettivi e di apparecchiature mediche, come i ventilatori, “sono in grado di soddisfare appena il 10 per cento della domanda”. La disponibilità di queste attrezzature “resta un motivo di preoccupazione,” il documento sottolinea, indicando nei bandi internazionali e nel rafforzamento della produzione locale possibili misure di contrasto all’emergenza. Ci vorranno settimane prima che l’Europa riesca a dotarsi di materiale sufficiente.

 

Di fronte alle carenze di strumenti medici e persino di farmaci, per i quali in molti casi l’Europa dipende dall’Asia, molti governi europei scatenano i loro peggiori istinti. Si affannano a comprare materiale prima dei loro vicini, ne vietano l’export in altri paesi Ue, in alcuni casi sequestrano dispositivi in transito sul loro territorio e destinati altrove. Si reintroducono controlli alle frontiere anche all’interno della zona Schengen, nonostante gli esperti sanitari sconsiglino misure restrittive visto che ormai il virus è già ovunque in Europa. Il ripristino dei controlli genera lunghe file di camion alle frontiere e mette a rischio persino la circolazione di generi alimentari. Si moltiplicano gli scompartimenti vuoti nei supermercati e nelle farmacie. Molti paesi europei vietano l’esportazione di centinaia di medicine. Non appena un farmaco mostra segni promettenti contro il virus, il suo export viene bloccato, mettendo in ginocchio un’industria che da decenni dipende da catene di approvvigionamento internazionali. 

 

Le liste nazionali di medicine il cui export è soggetto a restrizioni si allungano a dismisura, spesso includendo medicinali che nulla o poco hanno a che fare con la possibile cura del Covid-19. Molti paesi per esempio limitano l’esportazione di insulina, mettendo a rischio forniture indispensabili per milioni di malati di diabete in Europa. La carenza di farmaci è generalizzata. In un documento interno del primo aprile distribuito ai governi europei, la Commissione lancia l’allarme su decine di medicinali necessari nelle terapie intensive, da anestetici ad antibiotici, per cui si registrano o si prevedono carenze nelle forniture. L’esecutivo europeo lancia ripetuti appelli ai governi Ue perché rimuovano le restrizioni sulle esportazioni di medicine e dispositivi medici. Ci vorrà la fine della primavera, complice anche il rallentamento dell’epidemia e l’allentamento della pressione sugli ospedali, per far dimenticare le carenze dei mesi precedenti. Le chiusure dei confini, la concorrenza per l’accaparramento di mascherine, farmaci e apparecchi medici vitali, gli scompartimenti dei supermercati vuoti sono immagini di un continente disperato che in un momento di crisi dimentica la solidarietà e si lascia andare a politiche dettate dal gretto e spesso controproducente interesse nazionale. 

 

La pandemia in primavera decelera ma i governi sono consapevoli che solo con i vaccini se ne potrà veramente uscire. Il ripetersi delle divisioni viste all’inizio dell’emergenza metterebbe in questione la stessa tenuta dell’Unione europea, reduce da oltre un decennio di forti tensioni e ancora spaccata sul piano di rilancio economico, che verrà approvato a fine luglio 2020. In questo contesto di diffidenza reciproca, Germania, Francia, Italia e Paesi Bassi lanciano una trattativa con AstraZeneca per l’acquisto del vaccino contro il Covid-19 che l’azienda anglo-svedese stava sviluppando con primi risultati molto promettenti. A fine maggio la notizia dei negoziati filtra sulla stampa tedesca e il 2 giugno 2020 la Commissione viene informata dai quattro paesi delle trattative in corso. E’ il segnale che le autorità europee devono agire in fretta se vogliono evitare una nuova frammentazione dell’Europa. Il giorno dopo, il 3 giugno, in una riunione con gli ambasciatori dei paesi Ue, la Commissione svela il  piano per acquisti congiunti dei vaccini da parte di tutti i paesi dell’Unione. 

 

Con circa due miliardi di euro a disposizione in un fondo comunitario per le emergenze (ESI nell’acronimo inglese), la Commissione intende riservare un ventaglio di potenziali vaccini anti Covid-19. L’obiettivo è di accelerare lo sviluppo di vaccini che solitamente necessitano di un decennio per raggiungere il mercato. La Commissione si impegna a finanziare i costi di ricerca allo stesso tempo di  quelli di produzione. In tempi normali, si investe in produzione solo dopo il successo nei test clinici. “Questa volta faremo in parallelo, perché c’è un ovvio interesse pubblico ad accelerare,” Céline Gauer, allora vicedirettore generale della Commissione, spiega agli ambasciatori, secondo una nota diplomatica riservata. “C’è un ovvio rischio. Alcuni dei vaccini su cui investiamo potrebbero fallire i test, e parte dell’investimento andrebbe perduto. Per questo investiremo in diversi vaccini allo stesso tempo per essere certi di avere presto a disposizione quelli che ce la faranno,” osserva Gauer nella riunione del 3 giugno.

 

La Commissione in quel momento ha già avviato contatti informali con varie case farmaceutiche, ma ha fretta di cominciare formalmente i negoziati, non solo per evitare divisioni interne all’Ue, ma anche perché altri paesi hanno già annunciato i primi accordi di fornitura. AstraZeneca e l’Università di Oxford, il cui vaccino è ampiamente ritenuto in quel momento quello più avanzato nei test, avevano raggiunto a metà maggio un accordo preliminare con il governo britannico per la fornitura di 100 milioni di dosi. Pochi giorni dopo gli Stati Uniti prenotavano 300 milioni di vaccini. Le reazioni degli ambasciatori europei sono inizialmente caute. In una nuova riunione il 10 giugno, la Commissione ripete il messaggio e segnala l’urgenza di agire subito. “Se vogliamo un’azione congiunta Ue, dobbiamo deciderla ora,” il rappresentante dell’esecutivo europeo ammonisce, presentando un progetto preciso per gli acquisti congiunti, secondo una nota riservata. Il piano prevede che la Commissione guidi le trattative con le case farmaceutiche per assicurarsi tra i quattro e i sei vaccini potenziali.

 

Ogni accordo verrà sottoposto all’approvazione di un comitato direttivo composto di esperti nel quale siede un rappresentante scelto da ciascuno stato membro. Le dosi verranno riservate con versamenti anticipati, in gran parte non rimborsabili, effettuati dal fondo di emergenza ESI. Il pagamento del prezzo complessivo di ciascun vaccino verrà effettuato in un secondo momento, soltanto dagli stati che decidessero di acquistarlo e dopo l’approvazione dell’agenzia del farmaco europea (Ema nell’acronimo inglese). I vaccini verranno ripartiti tra gli stati interessati al loro acquisto in proporzione alla popolazione. Le regole sono chiare, ma gli ambasciatori prendono tempo.

 

Due giorni dopo, il 12 giugno, la questione è discussa dai ministri della salute dei paesi Ue. Il piano della Commissione è appoggiato da molti governi, alla condizione che gli stati siano pienamente coinvolti nelle trattative per l’acquisto di vaccini. “Tutti gli stati devono essere equamente rappresentati nel processo decisionale e nei negoziati,” si legge in un resoconto riservato dell’incontro che riassume la posizione di vari ministri. Il ministro tedesco Jens Spahn sottolinea nella riunione che la Commissione non aveva brillato nell’organizzare gli acquisti congiunti per i dispositivi medici e di protezione individuale, secondo la nota diplomatica. Sono accuse un po’ ingenerose visto che il ritardo e le divisioni dei governi nell’avviare le procedure di acquisto contribuì agli scarsi risultati. Il ministro tedesco chiede comunque un cambiamento di approccio e un ruolo chiaro per le capitali. 

 

Il giorno successivo, il 13 giugno, Spahn e i suoi omologhi di Francia, Italia e Paesi Bassi annunciano di avere raggiunto con AstraZeneca un accordo per la fornitura di un massimo di 400 milioni di dosi. Avevano preannunciato la mossa il giorno prima ai colleghi europei e si affrettano a dire che le dosi prenotate sarebbero state condivise con tutti gli altri stati Ue interessati all’acquisto. Ma le rassicurazioni non sono sufficienti per i paesi esclusi dall’accordo, che temono di essere tagliati fuori dalle forniture. Il tempo stringe, e la necessità di un piano europeo diventa sempre più ovvia per evitare nuove pericolose fratture. Il 16 giugno la Commissione invia ai governi Ue una proposta rivista per un programma congiunto di approvvigionamento dei vaccini. Tenendo conto delle osservazioni dei ministri della salute, la nuova bozza di accordo dà agli stati un ruolo maggiore nelle trattative con le case farmaceutiche. La squadra di negoziatori sarà composta della Commissione e di sette membri nominati dagli stati. I negoziatori dovranno far approvare i contratti sottoscritti con le case farmaceutiche dal comitato direttivo nel quale sono rappresentati tutti gli stati membri, in genere con funzionari provenienti dai rispettivi ministeri della salute o agenzie nazionali del farmaco. 

 

Sostanzialmente si passa da un modello in cui la Commissione gestisce interamente le trattative con i fornitori, a uno schema in cui gli stati sono coinvolti dall’inizio alla fine dei negoziati con un ruolo di spicco nel concludere gli accordi. L’esperienza fallimentare degli acquisti congiunti di mascherine e ventilatori viene messa definitivamente da parte, e si fa strada un nuovo modello ibrido. L’obiettivo è di attingere all’esperienza di più negoziatori con diverse esperienze e “avere una squadra che sa quel che fa,” il rappresentante della Commissione spiega in una riunione con ambasciatori Ue il 17 giugno, secondo un resoconto riservato dell’incontro. Per evitare pressioni indebite, le identità della maggior parte dei membri della squadra non verranno divulgate. In Italia alcuni giornali accuseranno i negoziatori di scarsa dimestichezza con le case farmaceutiche e i contratti, accuse oggettivamente difficili da provare, anche in virtù dell’anonimato di molti membri.

 

Tra i negoziatori la cui identità è nota spicca Richard Bergstrom, nominato dalla Svezia, con un passato alla guida della principale lobby farmaceutica europea EFPIA e come consulente dell’Oms. L’Italia e gli altri principali paesi Ue hanno tutti un rappresentante nella squadra dei negoziatori. Fino al suo pensionamento all’inizio del 2021, il negoziatore nominato dall’Italia è stato l’allora segretario generale del ministero della Salute Giuseppe Ruocco, che aveva già condotto le trattative con AstraZeneca prima che si formasse la squadra europea. Il negoziatore capo per la Commissione europea è l’italiana Sandra Gallina, a guida del dipartimento della salute dell’esecutivo europeo dopo una carriera trentennale nelle istituzioni europee.

 

La Commissione indica nella riunione del 17 giugno che la nuova squadra di negoziatori europei avrebbe preso in mano le trattative condotte fino a quel momento da Germania, Francia, Italia e Paesi Bassi, incluse quelle con AstraZeneca, il cui accordo preliminare deve essere tradotto in un contratto valido per tutti gli stati Ue interessati. Una condizione per accedere allo schema europeo è infatti quella di rinunciare a negoziati paralleli con le case farmaceutiche con cui tratta l’Europa – anche perché se questo fosse avvenuto avrebbe favorito le aziende. Nella riunione il rappresentante della Commissione racconta che il giorno prima aveva tenuto una videoconferenza con Johnson & Johnson alla quale era presente anche un negoziatore olandese in rappresentanza dei quattro paesi che avevano già raggiunto un accordo preliminare con AstraZeneca. “Johnson & Johnson ha chiaramente cercato di mettere la Commissione contro il rappresentante olandese,” il funzionario riferisce ai diplomatici Ue, sottolineando come andare divisi sarebbe stato controproducente, si legge in un resoconto riservato della riunione. 

 

Il piano è approvato da tutti gli stati Ue e nei giorni successivi il comitato direttivo e la squadra di negoziatori sono istituiti. Le trattative che la Commissione aveva già in corso in modo informale con varie case farmaceutiche entrano nel vivo. Ottenuto il via libera dagli Stati membri, la Commissione rivela al pubblico la sua strategia vaccinale spiegando alla stampa che l’obiettivo di fondo è concludere accordi preventivi con le case farmaceutiche che stanno sviluppando vaccini credibili. La strategia è descritta come una “polizza assicurativa”, in base alla quale l’Ue offre finanziamenti anticipati a produttori che potrebbero però fallire nei test clinici. L’Europa corre un rischio finanziario, ma in cambio ottiene il diritto di acquistare i loro vaccini se dovessero risultare efficaci e sicuri. E’ la condizione per stimolare la ricerca in vaccini vitali, e allo stesso tempo per assicurarsi dosi che tutti sanno saranno in scarsa disponibilità all’inizio della campagna vaccinale.

 

Da subito i negoziatori europei stabiliscono dei paletti importanti per la selezione dei potenziali fornitori di vaccini. Puntano innanzitutto a “non mettere tutte le uova nello stesso paniere,” un criterio ripetuto fino alla noia in pubblico e in privato da funzionari e politici europei. Si scelgono quindi vaccini sviluppati con tecnologie differenti, dai più tradizionali preparati che attivano le difese immunitarie con virus attenuati o inattivati come quelli di AstraZeneca e Johnson & Johnson, a quelli di nuova generazione che addestrano il sistema immunitario attraverso molecole di RNA messaggero (mRNA), come Pfizer/BioNTech, Moderna e CureVac. 

 

Un altro criterio che si rivelerà di cruciale importanza riguarda la capacità produttiva. Vengono selezionate solo le aziende in grado di produrre vaccini in Europa. E’ una mossa cruciale per il futuro industriale europeo in un settore strategico, ma è anche resa necessaria dagli Stati Uniti di Donald Trump il quale non smette di ripetere “America First”. In materia di vaccini il celebre motto del presidente si traduce sostanzialmente in un divieto all’export, che quindi squalifica agli occhi dei negoziatori europei tutte le aziende con fabbriche di vaccini solo negli Stati Uniti. Una funzionaria europea lo dice chiaramente in una conferenza stampa a giugno. “Non è per noi un’opzione quella di comprare vaccini da aziende con capacità produttiva esclusivamente negli Stati Uniti,” spiega a decine di giornalisti. Il “Made in Usa” è un limite, non un vantaggio in questo caso. Le case farmaceutiche selezionate riceveranno un sostanzioso anticipo a fondo perduto, ma il grosso del pagamento avverrà solo dopo la conclusione positiva dei test clinici e l’approvazione dell’Ema. I negoziatori puntano inoltre a introdurre clausole che mantengano in capo alle case farmaceutiche la responsabilità giuridica in caso di gravi effetti collaterali imprevisti. E’ un principio di precauzione richiesto dall’opinione pubblica che preserva le tutele dei cittadini europei, disincentiva ulteriormente le aziende da condotte rischiose e si pensa possa diminuire lo scetticismo nei vaccini, che in molti paesi Ue è molto elevato. 

 

A metà maggio gli Stati Uniti svelano l’operazione Warp Speed (Alla velocità della luce) con un budget iniziale di 10 miliardi di dollari per finanziare lo sviluppo di vaccini anti Covid-19 e assicurare a Washington le prime dosi. Una settimana dopo, il 22 maggio, annunciano un accordo per la fornitura di 300 milioni di dosi di AstraZeneca in cambio di un finanziamento di 1,2 miliardi di dollari. Seguiranno a luglio contratti di fornitura con Pfizer, Sanofi e Novavax, e ad agosto con Moderna e Johnson & Johnson, che avevano già ricevuto da Washington abbondanti fondi per lo sviluppo dei loro vaccini.

 

Se non proprio alla velocità della luce come gli americani, l’Ue comunque accelera pure. In una riunione dei ministri della salute il 16 luglio 2020, la Commissione europea fa il punto sulle trattative. L’Ue sta negoziando con AstraZeneca per finalizzare il contratto di 400 milioni di dosi, di cui 100 milioni opzionali, già pre-concordato da Germania, Francia, Italia e Paesi Bassi, si legge in un resoconto interno della riunione. Bruxelles è inoltre in trattativa con Johnson & Johnson, e discute con Sanofi per 300 milioni di dosi, disponibili però non prima della seconda metà del 2021, e tratta con tre aziende biotech che puntano su un vaccino mRNA: CureVac, BioNTech, che è partner di Pfizer, e l’americana Moderna. Sono esattamente le sei aziende con cui l’Europa firmerà contratti nei mesi successivi.

 

La settimana successiva in una riunione di ambasciatori Ue, la Commissione spiega che le trattative vanno avanti ma non senza intralci. Pfizer e BioNTech offrono per esempio più dosi di quante l’Ue abbia preventivato di comprare, e non vogliono pagamenti anticipati. Il rischio finanziario ricadrebbe tutto su di loro, ma in cambio chiedono un prezzo esagerato. L’offerta “va aldilà del nostro budget,” la Commissione ammette, secondo un resoconto riservato dell’incontro. Il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung rivelerà nel febbraio successivo, senza mai essere smentito, che il prezzo chiesto nel luglio 2020 era di circa 54 euro per dose per una gigantesca spesa complessiva per l’Ue che sarebbe stata di 27 miliardi di euro – quasi una manovra finanziaria italiana in tempi pre-pandemia. L’accordo finale raggiunto a novembre sarà invece a condizioni enormemente più favorevoli per l’Ue con un prezzo di 15,5 euro a dose per 300 milioni di vaccini, di cui 100 milioni opzionali, e una spesa complessiva di 4,65 miliardi di euro, secondo un estratto del contratto pubblicato dal quotidiano spagnolo La Vanguardia nell’aprile 2021. L’Europa anticipa 700 milioni di euro a fondo perduto. La strategia di Pfizer e BioNTech mostrava fin dall’inizio una grande sicurezza sulla qualità del loro prodotto. Sanofi, al contrario, chiede che l’Ue paghi tutto in anticipo, secondo un documento riservato del luglio 2020, e l’Europa prende tempo. 

 

Gli Stati Uniti invece accelerano, e il 31 luglio Warp Speed promette 2,1 miliardi di dollari al gruppo francese per garantirsi la fornitura di 100 milioni di dosi, e l’opzione su altri 500 milioni. Washington aveva già finanziato il gigante francese con oltre 30 milioni di dollari per il vaccino che stava sviluppando insieme alla britannica GlaxoSmithKline. Anche l’Europa alla fine cede, sotto crescente pressione nella stampa internazionale dopo che in un’intervista all’agenzia finanziaria Bloomberg l’amministratore delegato di Sanofi Paul Hudson dice esplicitamente che gli americani riceveranno i primi vaccini prodotti da Sanofi perché hanno investito in anticipo. In Italia, i media danno grande rilievo all’intervista di Hudson e al suo rimprovero per le esitazioni dell’Europa.

 

E’ in questo contesto che lo stesso giorno dell’annuncio di Warp Speed su Sanofi, la Commissione dichiara a fine luglio di aver concluso trattative preliminari con l’azienda per la fornitura di 300 milioni di vaccini. Il contratto verrà poi firmato a settembre. I negoziatori Ue non accettano però la richiesta di Sanofi per un pagamento interamente anticipato. Concordano un anticipo parziale di 324 milioni di euro, e il resto solo a vaccino ultimato. Si rivelerà una scelta azzeccata, visto che il vaccino anti Covid-19 di Sanofi fallirà i primi test clinici, e rimanderà il suo possibile esordio alla fine del 2021. Il prezzo concordato con l’Ue non è stato rivelato. Visti i dubbi sulla riuscita del vaccino, la Commissione successivamente ha anche sollevato con i governi Ue nel gennaio 2021 la questione di un eventuale parziale rimborso della somma versata a Sanofi, secondo un documento interno Ue, ma la proposta non ha inizialmente avuto seguito. Paradossalmente, dopo essere stata criticata sulla stampa internazionale per temporeggiare eccessivamente prima della firma del contratto con Sanofi, la Commissione verrà in seguito accusata di aver sottoscritto l’accordo troppo in fretta. Sui giornali tedeschi in particolare si solleveranno dubbi su influenze indebite del governo francese, mai  provate. Non sarà l’unica occasione durante l’attuazione della strategia vaccinale in cui le istituzioni europee si troveranno in mezzo al fuoco incrociato di critiche contrapposte e infondate, che però faranno presa sull’opinione pubblica.

 

L’accordo con Sanofi è il secondo raggiunto dall’Ue. In precedenza, a fine agosto 2020, era stato il turno di AstraZeneca. Il contratto Ue sostanzialmente riprende l’accordo preliminare raggiunto con l’azienda anglo-svedese a giugno da Germania, Francia, Italia e Paesi Bassi. L’Ue si impegna a pagare 2,9 euro per dose per una spesa complessiva minima di 870 milioni per i primi 300 milioni di dosi, con la possibilità di arrivare a spendere 1,16 miliardi di euro in caso di acquisto di altri 100 milioni di vaccini opzionali. L’Ue offre ad AstraZeneca un pagamento anticipato di 336 milioni di euro, di cui una prima tranche di 224 milioni è versata ai primi di settembre subito dopo l’accordo. L’azienda a sua volta si impegna a fare del suo meglio (“best reasonable efforts”) per consegnare ai paesi Ue 30-40 milioni di dosi entro la fine del 2020, altri 40 milioni a gennaio e via via aumentando fino a un totale di 300 milioni entro la fine del giugno 2021. Il prezzo Ue è più o meno in linea con quello concordato dagli Stati Uniti il maggio precedente, tenendo conto delle fluttuazioni valutarie. E d’altronde AstraZeneca ha pochi margini di manovra in quel momento perché si è impegnata con l’Università di Oxford, che ha sviluppato il vaccino, a venderlo al prezzo di produzione almeno durante la pandemia. 

 

Il governo britannico a sua volta aveva raggiunto a maggio un accordo con Oxford e AstraZeneca per la fornitura di 100 milioni dosi, di cui 30 milioni entro il settembre 2020, in cambio di un finanziamento di 65,5 milioni sterline, il ministro inglese per le attività economiche Alok Sharma dichiarava il 17 maggio. Un’altra ventina di milioni di sterline erano state versate a marzo. Il contratto vero e proprio con AstraZeneca sarà firmato però soltanto il 28 agosto 2020, cioè il giorno successivo alla firma di quello Ue. Non è stata rivelata l’entità e la tempistica di ulteriori investimenti britannici per lo sviluppo delle capacità produttive di AstraZeneca. Il finanziamento noto è largamente inferiore a quello dell’Ue. Anche l’accordo con la Gran Bretagna si basa su un impegno per l’azienda a fare del suo meglio, secondo le parti del contratto pubblicate e non coperte da omissis. Nel frattempo, l’Europa continua nei suoi negoziati e dopo aver impegnato nei primi due contratti già un terzo dei circa due miliardi di euro a disposizione del fondo di emergenza si incomincia a discutere di aumentarne la dotazione finanziaria. In una riunione dei ministri della salute il 4 settembre, il ministro tedesco Jens Spahn chiede che gli stati mettano collettivamente a disposizione altri 750 milioni di euro, secondo un resoconto riservato dell’incontro. Le reazioni sono negative. Molti ministri prendono tempo. I paesi dell’Est Europa sono tra i più reticenti. Altri, come il Lussemburgo o l’Irlanda, sottolineano che è una decisione che spetta ai rispettivi governi. La Danimarca chiede che si usino fondi europei e non nazionali. 

 

Ma il problema è che il bilancio europeo è nel suo ultimo anno del ciclo settennale 2014-2020 e non ci sono altri fondi di emergenza inutilizzati. Dunque, spetta ai governi mettere più soldi. La questione è ridiscussa in una riunione di ambasciatori l’11 settembre 2020. Gli stati restano riluttanti. Sofia chiede di poter non partecipare al rifinanziamento. La Commissione fa notare nella riunione che chi si tira fuori rischia di non avere vaccini a sufficienza. Alla fine, si trova un accordo per i finanziamenti addizionali, ma i fondi arrivano soltanto a ottobre. Questo ritardo contribuisce a ritardare la firma di alcuni contratti. 

 

Intanto, ai primi di ottobre Bruxelles annuncia il terzo accordo per la fornitura di vaccini. Il gigante americano Johnson & Johnson si impegna a consegnare 200 milioni di dosi, e altrettante sono incluse nel contratto come opzionali. Il prezzo per dose non è noto, ma l’Ue concorda un pagamento anticipato a fondo perduto di circa 360 milioni di euro. Il resto verrà pagato solo in caso il vaccino venga approvato dall’agenzia europea del farmaco. In una riunione con ambasciatori poco prima dell’accordo con Johnson & Johnson, la Commissione ammette che negoziare con le aziende farmaceutiche non è facile “perché sanno che noi abbiamo bisogno di loro, mentre loro non hanno bisogno di noi,” si legge in un resoconto riservato.

 

Comincia l’autunno, e mentre l’Europa è colpita dalla seconda ondata della pandemia, sul fronte dei vaccini incominciano ad arrivare le prime vere buone notizie. I risultati dei test clinici sono sempre più promettenti e il 9 novembre 2020 Pfizer e BioNTech sono i primi ad annunciare i risultati finali di test su migliaia di volontari. Il vaccino è molto più efficace di quanto si potesse sperare, e protegge dal Covid-19 in oltre il 90 per cento dei casi. Due giorni dopo, la Commissione europea annuncia un accordo con le due aziende per la fornitura di 300 milioni di dosi. Il prezzo pagato per il vaccino è di 15,5 euro per dose, per un totale di 4,65 miliardi di euro. L’Ue si impegna a un pagamento anticipato di 700 milioni di euro per finanziare l’espansione della capacità produttiva in Europa, mentre il resto verrà saldato dai singoli stati dopo l’approvazione da parte dell’Ema.

 

L’accordo con Pfizer segna una svolta nella strategia europea. I tre contratti firmati precedentemente riguardavano vaccini basati su tecnologie più tradizionali: AstraZeneca e Johnson & Johnson usano virus inattivati già utilizzati nei vaccini contro l’epatite A o la poliomielite; Sanofi usa proteine ricombinanti già presenti nel vaccino contro l’epatite B. Con l’accordo con Pfizer, l’Ue sposa definitivamente la tecnologia dell’RNA messaggero che ha finanziato profusamente in quanto molto promettente, ma che ancora non è mai stata testata in alcun vaccino in circolazione. Si rivelerà una scelta vincente. All’accordo con Pfizer e BioNTech seguono a stretto giro contratti con altri due produttori di vaccini mRna. Il 17 novembre è annunciato l’accordo con CureVac per un totale di 405 milioni di dosi, di cui 180 milioni opzionali. Il 25 novembre è la volta dell’americana Moderna con cui l’Ue concorda una fornitura di 160 milioni di dosi, la metà delle quali opzionali. Con questo sesto contratto, l’Europa si assicura in totale circa due miliardi di dosi per una popolazione di 450 milioni, anche se le consegne sono tutt’altro che certe in quanto dipendono dal successo di vaccini ancora in attesa di autorizzazione.

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